Maria. G. Lo Duca
Università degli Studi di Padova
Come ormai tutti sanno, hanno finalmente visto la luce le nuove e questa volta definitive Indicazioni nazionali per il curricolo. Scuola dell’infanzia e scuole del primo ciclo d’istruzione, precedute da una bozza (uscita l’11 marzo di quest’anno) su cui si era chiesto il parere di associazioni e studiosi. Nonostante i tempi strettissimi, le valutazioni espresse sono state numerose e per lo più abbastanza critiche: si sono notati il taglio ideologico di molte affermazioni (Ambel 2025); il disordine e la ripetitività degli indici, con continue e indebite commistioni fra lingua e letteratura (Lo Duca 2025); l’assenza del tema del plurilinguismo (Ferreri 2025); alcune ingenuità e pasticci teorici nel trattamento della grammatica (Graffi 2025, Notarbartolo 2025). Molti di questi temi sono poi stati ripresi e ribaditi da alcune associazioni di insegnanti e docenti universitari (MCE, GISCEL, ASLI ecc.).
Ci si potrebbe chiedere, adesso, se la commissione incaricata della redazione delle Indicazioni abbia tenuto conto delle critiche. Limitando la mia attenzione alla disciplina chiamata “Italiano”, devo riconoscere che l’assetto complessivo è migliorato: il testo è diventato più asciutto, molte fastidiose ripetizioni sono state eliminate, alcune inesattezze o prese di posizione ideologiche sono scomparse. Ad esempio nelle bozze si scriveva “la necessità della correttezza, richiesta dalla sua [della scuola] stessa funzione sociale” ecc. ecc. (l’insistenza sul concetto di “correttezza”, inteso come osservanza delle regole, era continuo e perfino fastidioso). Nella versione definitiva si sostituisce, almeno in questo passaggio, correttezza con adeguatezza qualitativa, e il passo diventa “la necessità dell’adeguatezza qualitativa, richiesta dalla sua stessa funzione sociale” (p. 34). La sostituzione non è banale, e mi pare un implicito riconoscimento del tema della varietà dei testi, i quali vanno giudicati più che per un astratto ideale di correttezza, cioè di adesione ad una norma superiore individuata e definita una volta per tutte, per la loro adeguatezza alle diverse situazioni comunicative che ogni parlante si trova a dover affrontare, e di cui la scuola deve farsi carico. Io almeno interpreto così la correzione, e me ne compiaccio.
E tuttavia, pur senza fare l’esegesi delle due versioni, non posso non notare il fatto che gli interventi correttivi a volte peggiorano il testo, risultando contraddittori rispetto ad altri passaggi che compaiono addirittura nella stessa pagina. Basterà leggere assieme e commentare brevemente il paragrafo introduttivo della materia Italiano, dal titolo Perché si studia l’italiano. L’attacco del paragrafo, del tutto assente nella prima versione, è stupefacente. Lo riporto integralmente (corsivo mio):
“Il cambio di paradigma delle Indicazioni attraversa soprattutto la disciplina Italiano, riportando al centro dell’apprendimento la ricerca e valorizzazione dei meccanismi strutturali che regolano il funzionamento della lingua, spiegano l’esistenza e gerarchia delle ‘regole‘ e dimostrano l’importanza della sintassi, distinguendosi da concezioni che esaltano un’idea di lingua come fenomeno spontaneo, sopravvalutando le varietà d’uso e la creatività del soggetto” (p. 34)
Qui si rivendica ambiziosamente un “cambio di paradigma” che finalmente “riporta” (come era nel passato, immagino si voglia sottintendere) “al centro dell’apprendimento” le regole e la sintassi. Le quali vengono contrapposte “a un’idea di lingua come fenomeno spontaneo”, in cui “le varietà d’uso e la creatività del soggetto” sono state sopravvalutate. Dunque si afferma una contrapposizione tra le regole e la sintassi da una parte, le varietà d’uso e la creatività dall’altra. É su questo punto particolare che vorrei ragionare nel corso dell’intervento.
Siamo tutti – studiosi e parlanti comuni – ben convinti del fatto che ogni sistema linguistico si struttura secondo regole, sulla cui natura la linguistica novecentesca ha molto discusso (Grandi 2015). Senza addentrarci adesso in questa discussione, vorrei almeno richiamare l’avvertimento del linguista Michele Prandi, la cui felice intuizione è sintetizzata nel titolo stesso della sua prima grammatica dell’italiano, scritta assieme a Cristiana De Santis, Le regole e le scelte (2011). L’idea centrale, ripresa e ottimamente argomentata nel suo ultimo saggio del 2025, è che non tutte le regole sono uguali. Ce ne sono che non possono essere violate per nessuna ragione e in nessuna circostanza, come quella dell’accordo in italiano (*la gattino dormono). I linguisti definiscono agrammaticali queste sequenze e le segnalano con l’asterisco. Ci sono però anche regole meno cogenti, che i parlanti sanno, per lo più inconsapevolmente, di poter rispettare o violare a seconda del contesto d’uso (penso che viene/venga più tardi), come quella del congiuntivo retto da un verbo di opinione. In questo secondo caso si tratta di variazioni che ogni sistema linguistico consente, e su cui per lo più interviene la scuola, imponendo la varietà più formale, sentita come unica corretta. Sulle regole del primo tipo, invece, gli insegnanti non hanno per lo più occasione di intervenire, perché i parlanti nativi e normodotati di una lingua generalmente non fanno “quel” tipo di errori.
Quanto detto fin qui ci ricorda che ogni sistema linguistico è soggetto a continua variazione: una lingua viva si trasforma nel tempo, e si uniforma alle esigenze dei parlanti, registrando nuove forme – nel lessico le novità sono rapide e subito evidenti – e nuove strutture. In quest’ultimo caso, quindi nella sintassi e soprattutto nella morfologia, il movimento è lento, lentissimo, tanto che spesso è inavvertibile dal parlante comune, e l’arco di una vita non basta a consolidare certi usi. E tuttavia, come ci ricorda Cerruti (2015, p. 101) “la variazione è tutt’altro che casuale e caotica; è strutturata, mostra una ‘ordinata eterogeneità”, e in definitiva anche la variazione “ha delle regole”. E infatti le varietà degli usi sono state descritte proprio a partire dalle regole che sottostanno alla produzione di strutture che solo i profani possono semplicisticamente etichettare come “errori”. Tanto è vero che alcune delle strutture presenti nelle varietà d’uso più informali – le frasi marcate, ad esempio, o le molte ristrutturazioni in atto nel sistema pronominale e verbale – sono state da tempo assunte e fatte oggetto di attenzione dalle grammatiche di riferimento dell’italiano, che le hanno descritte proprio in termini di regole. Insomma, l’idea che ci sia da una parte una lingua corretta normata da regole, dall’altra delle varietà dominate da spontaneismo e sciatteria, è un’idea ingenua che non fa onore a chi l’ha concepita.
È stato detto e ripetuto infinite volte, ma giova ripeterlo: i fenomeni di scostamento dalla norma codificata della lingua, quando siano frequenti e generalizzati, sono spie di cambiamenti in atto nel sistema. Non è l’assalto dello spontaneismo e della sregolatezza alle regole della lingua, ma piuttosto l’emergere di una nuova e diversa regola che si impone, vuoi per ragioni di semplificazione del sistema, vuoi per l’urgenza di esprimere nuovi sensi e nuove priorità, vuoi per influsso di altri sistemi linguistici. Dunque le modalità sentite in un certo momento storico come devianti, se soddisfano delle esigenze reali e condivise dei parlanti, si diffondono nonostante l’ostracismo della scuola e dei benpensanti: si diffondono prima nelle varietà più informali di lingua, poi dilagano nello standard e spesso diventano norma (Renzi 2012). Oggi nessuno si scandalizza se usiamo lui, lei come pronomi soggetto al posto di egli, ella sentiti come antiquati, e pochi pretendono ancora che si usi loro come pronome dativo di terza persona plurale (in frasi del tipo i manifestanti hanno bloccato gli automobilisti consegnandogli un volantino in cui ….). Si discute ancora se accettare nello scritto formale questo uso, ma è un fatto che gli al posto di loro sfugge ormai all’attenzione, e non solo nell’oralità, come testimonia il linguista Lorenzo Renzi: “io – scrive lo studioso – ho deciso da anni di scrivere gli per loro e l’ho fatto in tutti i miei libri e articoli, compreso questo, e non mi risulta che nessuno se ne sia mai accorto” (ivi, p. 102).
Tutto questo per dire che la contrapposizione tra la buona lingua normata da regole e le varietà d’uso è sbagliata, perché anche le varietà d’uso sottostanno a delle regole. Basterà dunque che anche la scuola accetti il fatto che uno stesso contenuto può essere espresso in modi diversi, correlati a situazioni diverse, facendosi carico di questa varietà e complessità. Come peraltro le stesse Indicazioni, contraddittoriamente, non possono fare a meno di riconoscere qualche riga sotto quel roboante inizio, allorché, e sia pure con una certa timidezza, scrivono “Si promuova nel discente, assieme e grazie alle regole, la competenza e la consapevolezza dell’importanza dell’adeguatezza linguistica e formale in contesti diversi” (p. 34).
È sbagliata anche la contrapposizione tra le regole e la creatività, anche questa sopravvalutata, secondo le Indicazioni. C’è un filone particolare della linguistica, la linguistica acquisizionale, che chiarisce molto bene l’esistenza di un intimo rapporto tra le une e l’altra, e non è un caso se io stessa, qualche decennio fa, ho scelto proprio questo sintagma, Creatività e regole, come titolo di un libro in cui davo conto di una ricerca condotta nell’ambito dell’acquisizione della morfologia lessicale (Lo Duca 1990). In quella occasione avevo studiato l’acquisizione di alcuni procedimenti derivativi dell’italiano, in particolare i nomi di agente, raccogliendo neoformazioni prodotte spontaneamente, nell’interazione, da bambini fra i 3 e gli 8 anni di età, o elicitandone attraverso un test apposito. In quel caso studiavo alcune strane parole presenti nel linguaggio infantile, create dai bambini per soddisfare le loro normali necessità di designazione: dunque stoffaio e palloncinaio nel senso, rispettivamente, di ‘venditore di stoffe’ e ‘venditore di palloncini’; trenista e aerista per ‘conducente di treno’ e ‘pilota’; aviare nel senso di ‘guidare un aereo’. Sono parole che non esistono nella lingua, né potremmo, come docenti, accettarle come usuali. I lettori ricorderanno il caso di petaloso, aggettivo creato da un bambino a partire da petalo, di cui si discusse sui giornali qualche anno fa e su cui prese posizione perfino l’Accademia della Crusca. In tutti i casi si tratta di parole create da bambini attraverso l’applicazione di regole già individuate: stoffaio e palloncinaio, sono formazioni regolari che applicano a un nome di base (rispettivamente stoffa/e e palloncino/i) la stessa regola che ha dato origine a fioraio, giornalaio, benzinaio. Lo stesso dicasi di trenista e aerista (create sulla falsariga di autista, ciclista, camionista). Per aviare il percorso della bambina che l’ha prodotto è stato ancora più raffinato: da aviatore è risalita a un supposto verbo di base, aviare, avendo già scoperto il rapporto di derivazione, formale e semantico, che c’è tra ascoltare e ascoltatore, giocare e giocatore, esplorare ed esploratore. A me pare che questi pochi esempi spieghino come la contrapposizione, nella lingua, tra la creatività e le regole sia mal posta: il bambino, ad esempio, crea applicando regole e viceversa, cioè si serve delle regole che ha già individuato e interiorizzato per creare parole nuove, cui affida significati prevedibili.
Concludendo: il cappellino introduttivo che si è voluto mettere alla disciplina chiamata Italiano crea una contrapposizione che di fatto non esiste, al solo scopo, immagino, di esaltare il ruolo delle regole, di tutte le regole, anche quelle grammaticali, “come una forma di rispetto per gli altri: dunque anche come un dovere sociale” (p. 34). È una concezione etica della grammatica, fatta propria ed esternata in più occasioni dal ministro Valditara, che convive però, nelle Indicazioni, con altri passaggi ispirati a saperi e intendimenti meno ideologici e più condivisibili, forse ineludibili dopo decenni di studi linguistici, sociolinguistici e pragmatici. I docenti sapranno trovare il modo di approfittarne.
Per approfondire
Ambel, Mario. 2025. Nuove Indicazioni 2025 – Infanzia e Primo ciclo https://laricerca.loescher.it/nuove-indicazioni-2025-infanzia-e-primo-ciclo-6/
Cerruti, Massimo. 2015. Regole ed eccezioni nella variazione sociolinguistica, in Grandi N. (a cura di), La grammatica e l’errore. Le lingue naturali tra regole, loro violazioni ed eccezioni, 101-117. Bologna: Bononia University Press.
Graffi, Giorgio. 2025. Sulle “Nuove indicazioni nazionali”: tra correttezza e grammatica https://www.terzogiornale.it/author/giorgio-graffi/
Lo Duca, Maria G. 1990. Creatività e regole. Studio sull’acquisizione della morfologia derivativa dell’italiano. Bologna: Il Mulino.
Lo Duca, Maria G. 2025. Le Indicazioni Nazionali 2025: una prima lettura https://giscel.it/wp-content/uploads/2025/03/LoDuca-Le-Nuove-Indicazioni.pdf
Notarbartolo, Daniela. 2025. SCUOLA/ “Indicazioni nazionali e grammatica, non facciamo l’errore di buttare la teoria” www.ilsussidiario.net/news/scuola-indicazioni-nazionali-e-grammatica-non-facciamo-lerrore-di-buttare-la-teoria/2815724/
Prandi, Michele. 2025. Perché insegnare la grammatica https://www.rivistailmulino.it/a/perch-insegnare-la-grammatica
Prandi, Michele & De Santis, Cristiana. 2011. Le regole e le scelte. Manuale di linguistica e di grammatica italiana. Torino: UTET Università.
Renzi, Lorenzo. 2012. Come cambia la lingua. L’italiano in movimento. Bologna: Il Mulino.
0 Commenti
Lascia un commento