Luca Alfieri
La linguistica storica non è in genere un mestiere che offre grandi possibilità nell’ambito della ricerca applicata. Eppure qualche eccezione, di tanto in tanto, si verifica.
Nell’aprile del 2018 il regista Matteo Rovere mi racconta una sua idea: vuole girare un film sulla fondazione di Roma; ma vuole che sia un film innovativo, nel tono e nel messaggio. In genere – mi dice –, l’immagine cinematografica della Roma antica è di due tipi. Il primo tipo di immagine è decisamente decadente: un’immagine ‘tradimenti e languori’, come nel Satyricon (Fellini, 1969) o nel Gladiatore (Scott, 2000). La seconda immagine è imperiale e patinata, celebrativa e un po’ stantia, più neo-classica che classica in senso proprio: un’immagine ‘toghe e colonne’, come in Ben-Hur (Wyler, 1959) e Spartacus (Kubrick, 1960). Ecco, Rovere voleva sostituire queste immagini con una narrazione nuova, cruda, barbarica e primitiva – quindi, proprio per questo, più ‘originaria’ –, che da una parte riportasse la fondazione di Roma a una cultura materiale più vicina a quella attestata in molti insediamenti laziali del ferro tardo, e dall’altra ammiccasse all’atmosfera mitico-barbarica di alcune recenti serie TV di successo, come Vikings o Game of Thrones.
Il mio compito era quello di tradurre il copione del film in latino, come W. Fulco aveva tradotto in aramaico The Passion of Christ (Gibson, 2004). Non però il latino classico: serviva piuttosto una sorta di ‘protolatino’ che, già dal punto di vista fonico, desse allo spettatore la stessa impressione barbarica, cruda e primitiva che era alla base della poetica del regista. Accettai: mi sembrava una sfida attraente per qualsiasi glottologo formatosi nei laboratori dell’indoeuropeistica, notoriamente fumosi e pieni di ipotesi.
Per prima cosa tradussi il copione in latino ‘standard’, limitandomi a restituire la cosiddetta ‘pronuncia scientifica’: ad esempio, chiedevo agli attori di pronunciare k-ó-e-l-u-m per coelum, con la /k/ “dura” e il dittongo –oe– conservato, k-á-e-d-e-s per caedes con la /k/ ‘dura’ e il dittongo –ae– conservato e gh-i-g-n-o per gigno con la g “dura” anche davanti a [i] e nel gruppo –gn-. Il risultato non mi sembrava male, ma il regista lo bocciò senza appello: «Pare ‘a messa da’a nonna!». Come mi spiegò, per il suo spettatore-tipo il latino non era la lingua di Catullo e di Virgilio, ma era la lingua della Chiesa pre-1965. La lingua – mi disse – andava ‘anticata’ e ‘sporcata’ per raggiungere l’effetto percettivo barbarico e primitivo che stava cercando.
Ancora titubante per la plausibilità filologica dell’operazione, elaborai una seconda versione del testo. In questo caso, oltre a restituire la pronuncia scientifica, avevo inserito un certo numero di arcaismi realmente attestati nelle epigrafi latine arcaiche o nei frammenti letterari pre-classici. Ad esempio, utilizzavo ollus per ille, –āī o –ās nel genitivo singolare dei temi in –a– (i.e. vestis puellae o puellai “la veste della ragazza” rispetto al classico vestis puellae); utilizzavo –ōd e –ād nell’ablativo singolare dei temi in –a– e –o– sul modello delle voci poplicod e sententiad che si trovano nel Senatus consultum de Bacchanalibus), –eis nel nominativo plurale dei temi in –o– sul modello della forma magistreis che si trova nell’iscrizione nr. 677 del secondo tomo del primo volume del monumentale Corpus Inscriptionum Latinarum, e così via. Il regista, però, bocciò anche questa versione: «Pare ‘a messa da’a nonna sbiascicata!». Il tasso di arcaicità della lingua doveva ancora aumentare e doveva aumentare in modo esponenziale. Il realismo, come mi disse il regista per fugare i dubbi da filologo, non era un criterio. Nel cinema, come in ogni altro prodotto d’arte, tutto deve essere finto o, più semplicemente, ‘arte-fatto’, perché tutto possa sembrare vero.
Si aprì, così, la fase più complessa della mia collaborazione con il regista. Certo, era possibile andare a spigolare Corpus Inscriptionum Latinarum, alla ricerca di qualche altra delle forme arcaiche che, per fretta o per scelta, non avevo inserito nel testo. Inserii così forme come iouxmenta per iūmenta seguendo il modello del Lapis Niger; –osio nel genitivo singolare dei temi in –o– grazie al Lapis Satricanus, che mi consentiva di inserire forme come luposio per il classico lupi; o ancora scrivevo sub vos placo per il classico supplico vos secondo la testimonianza di Paolo epitomatore di Festo; e avevo riportato a *s tutti i casi di -r- intervocalica (temposis per il classico temporis). Però, più procedevo in questa direzione, più mi accorgevo che il problema richiedeva una soluzione più drastica.
Mentre ero ancora preda dei miei sensi di colpa da filologo, mi venne tra le mani uno splendido libro di Bausani, Le lingue inventate (1974). Al di sotto dell’etichetta di linguae ex inventione, Bausani riuniva le lingue filosofiche a priori del ’6-’700, le lingue artificiali come l’esperanto di Zamenhof, i fenomeni di glossolalia magico-sacrale, e i casi di ‘verbigerazione ludica’, ovvero le lingue inventate per gioco (tra l’altro esiste anche un’associazione mondiale per i creatori di lingue: la Language Creation Society). Leggendo, ripensavo ai miei personali modelli di lingue inventate: il grammelot di Dario Fo, l’elfico di Tolkien, la Gnosi delle fanfole di Maraini, o quella mescola di napoletano, molisano e italiano che usa il commissario Ingravallo nel Pasticciaccio di Gadda. E poi le lingue inventate non erano una novità sul grande schermo: oltre all’elfico de Il signore degli anelli, il klingon di Star Trek, il na’vi di Avatar, il dothraki e l’alto valyriano de Il trono di Spade fornivano antecedenti recenti e di successo.
Avevo, in qualche modo, trovato la soluzione. Se abbandonavo il rigore tipico del filologo e mi concentravo sulla creatività, potevo sfruttare la ricostruzione indoeuropea per procedere ad un camouflage letterario in piena regola, ‘anticando’ il latino storico quanto bastava per suggerire allo spettatore un mondo ‘altro’, barbarico e primitivo. Potevo, insomma, creare una lingua inventata; ma inventata e philologia, e non ex arbitrio. Grazie a questa scelta potevo non soltanto utilizzare gli arcaismi davvero attestati, ma potevo inserire nel testo anche quelli ricostruibili con la comparazione indoeuropea, attestati o meno. Scrissi, quindi, guiuos per vīvus dato che il latino vīvus deriva dalla forma indoeuropea ricostruita *gwiH-wo-, come mostra il greco βίος[1]; scrissi ghuomo per homo, dato che homo proviene dall’indoeuropeo *gwhem-, come mostra il gotico guma; scrissi anche leuksna per lūna dato che lūna deriva dall’indoeuropeo *leuk-s-na-, come mostra il sanscrito rocate ‘splende’; scrissi porsco per pōsco dato che pōsco deriva dall’indoeuropeo *pr̥-sk̂- come si veda dal tedesco Forschung, e scrissi tersla per terra dato che terra deriva dall’indoeuropeo *ters-la-, che letteralmente vuol dire ‘la secca’, come mostra l’aggettivo corradicale inglese thirsty, e così via. Oppure, utilizzai le desinenze –ti e -onti nella 3° persona singolare e plurale dell’indicativo, gli antichi congiuntivi siem, sies, siet, o le forme desiderative che si trovano ancora in Ennio come facesso, curasso, levasso, e così via.
Certo, il risultato di questa opera di creatività filologica era filologicamente inaccettabile: si trattava di una lingua che peccava contro Saussure e il concetto stesso di ‘cronia’. Avevo schiacciato su un unico piano elementi che, pur se singolarmente accettabili, provenivano da fasi cronologiche totalmente diverse tra loro. In sostanza, avevo inventato una lingua andando indietro nel tempo: la risalita, però, non era uniforme per tutti gli elementi che la componevano; né poteva esserlo, sia perché esistono lemmi senza etimo; sia perché il tempo a mia disposizione non mi aveva consentito di essere del tutto coerente (lasciai diva nonostante il deivos del Vaso di Dueno); sia perché una lingua coerente dal punto di vista cronico, ma percettivamente diversa da ciò che serviva al regista non era lo scopo che ci eravamo prefissi.
Dunque accettai il risultato, un po’ come si accetta un figlio cresciuto in una direzione diversa da quella che avevamo previsto o forse voluto, e portai al regista il mio piccolo saggio di dadaismo scientifico. Lui ne fu felicissimo: “Ah, mo’ sì! Così li vojjo ’sti Romani de’e origgini: belli, barbarici e ’ncomprensibbili!”. Certo, la mia lingua peccava dal punto di vista filologico, ma forniva al regista ciò che mi aveva chiesto: i suoi personaggi avevano un volto fonico che, già in sé, riassumeva gli aspetti più salienti della sua poetica.
Insomma, il successo del film mi pare dimostri che Rovere abbia avuto una buona idea con la sua poetica barbarica e la mia lingua ‘proto-latina’ le abbia fornito un’utile cassa di risonanza. Più in generale, questo piccolo esperimento mi pare dimostri quanto possa essere fruttuoso il dialogo tra l’accademia e l’industria culturale anche in settori tradizionalmente lontani dalla ricerca applicata.
[1] L’asterisco indica, appunto, che le forme IE sono ricostruite sulla base della comparazione tra le varie lingue IE, non attestate. Chi fosse completamente all’oscuro di linguistica comparativa può leggere si può rivolgere alla seguente voce di Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Linguistica_comparativa.
1 Commento
Emanuela 25 Maggio, 2023
Interessante, da proporre ai miei alunni.
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