Diego Marani
Scrittore e glottoteta
Ogni scrittore prima o poi deve porsi il problema della lingua, nel senso di decidere in quale lingua scrivere. Questa può sembrare una questione molto marginale, riservata a chi ha padronanza di più lingue. Ma non è così. Di ogni lingua ne esistono tante varietà e non parlo di quelle regionali ma intendo le varietà personali di chiunque usi la lingua per scrivere. Si potrà dire che qui indaghiamo una questione di stile o di registro, non di lingua. Questo può essere vero fino a un certo punto. Ogni scrittore usa le parole cercandovi il senso di quello che vuole esprimere, talvolta anche forzando il dizionario, e quindi in una certa maniera creandosi una lingua propria. Una lingua che il lettore potrà solo apparentemente capire e che lo scrittore vorrà rendergli più o meno comprensibile. Scrivere talvolta è dire nascondendo, è un bisogno di esprimersi che si mette sempre in opposizione al bisogno di mentirsi. In fin dei conti lo scrittore, se potesse, scriverebbe solo per sé. Ma ha bisogno di un pubblico per essere riconosciuto scrittore e quindi nello scrivere effettua una mediazione, già una forma di traduzione, talvolta inconscia, fra quello che vuole dire e quello che vuole che il lettore sappia. Nella mia esperienza di scrittura ho dovuto affrontare una molteplicità di scelte. Innanzitutto quella linguistica. Avrei la capacità di scrivere in francese e in un certo periodo della mia vita di scrittore ho fatto alcuni tentativi. Una difficoltà mi veniva inevitabilmente dalla non assoluta padronanza della lingua. Ma la più invalicabile non era questa bensì la costrizione di una diversa struttura di pensiero. Mi accorsi presto che la stessa storia, scritta in francese e in italiano sarebbe risultata in due storie diverse. Questo mi ha fatto sempre nutrire forti dubbi sulla traduzione, ma di questo parlerò oltre. Un’altra possibilità che avevo a disposizione era il dialetto. Il vernacolo ferrarese non è una lingua letteraria ma da quasi madrelingua avevo a disposizione un cospicuo armamentario espressivo che si aggiungeva alla grande libertà di poter inventare neologismi per esprimere tutta quella parte di modernità per cui il ferrarese non ha ancora un vocabolario. Qui l’ostacolo maggiore era la mia percezione di quello che scrivevo e di cui percepivo l’intrinseca volgarità. Nella nostra percezione comune il vernacolo resta appunto un volgare, un volgare perenne, che non si nobilita ai nostri occhi neppure con un uso elevato, anche se questo potrebbe accadere con la diffusione del suo uso. L’unica scelta linguistica che mi rimaneva era anche la più efficace: l’italiano, lingua matrigna di cui pure pretendo piena padronanza. Ma avventurandomi nella scrittura in italiano, da locutore di diverse lingue, subito mi accorsi di quanto certe parole della nostra lingua mi risultavano spuntate, non adatte a dire quel che volevo. C’erano invece in altre lingue che conoscevo parole di una perfetta precisione per i miei intendimenti, che ricalcavano alla perfezione i significati di cui ero alla ricerca. La scrittura è sempre una sismografia, richiede un’infinita precisione e anche se quel terremoto è percepibile solo dallo scrittore, egli non potrà fare a meno di registrare ogni minima scossa con la punta del suo vocabolario. Rinunciare all’uso di parole di altre lingue che servivano perfettamente il mio proposito espressivo mi parve uno spreco. Impossibile scrivere mescolando lingue, pensai. Invece un modo c’era e divenne una mia invenzione: l’europanto.
Per chi non ha mai sentito parlare di europanto, comincerò col dire che l’europanto è un po’ come il jazz: un’improvvisazione senza regole dove quel che conta non è la forma ma il contenuto, l’espressività. L’europanto è uno strumento di comunicazione puro, una lingua in ebollizione come il magma di un vulcano. Del resto, anche se non sembra, tutte le nostre lingue sono in continua ebollizione. Anche se molti si ostinano a considerarle fisse, immutabili e soprattutto intoccabili. Il mito della lingua pura è inestinguibile quanto la ricerca della verità, del senso del vivere, del nostro destino. Con la lingua abbiamo l’impressione di controllare la realtà e di piegarla ai nostri significati. È invece lei, la cangiante realtà che plasma il nostro linguaggio.
Tornando all’europanto, può anche essere un gioco pericoloso, perché se la vostra padronanza delle lingue vere, quelle che avete imparato sui banchi di scuola, non è protetta da solidi bastioni di conoscenza, l’europanto rischia di frullare insieme tutte le vostre conoscenze linguistiche, lasciandovi in testa soltanto una ricca e multilingue collezione di errori. Si può effettivamente dire che l’europanto sia una collezione di errori ma come sappiamo gli errori sono comunicativi, destano l’attenzione, la prima cosa necessaria alla comunicazione. L’europanto soprattutto non ha regole, mi sono sempre accanito a dire, o meglio non ha regole scritte. E se non ha regole, come si può chiamarlo lingua? Tempo fa, quando mi veniva posta questa domanda, rispondevo che l’europanto non è una lingua, è solo uno scherzo, lo sfogo di un linguista ossessionato dalle grammatiche di tutte le lingue che ha studiato, per scelta o per forza e di uno scrittore fanatico di significato. Ma dopo la pubblicazione della mia raccolta di racconti in europanto, Las adventures des inspector Cabillot, e di quasi trecento articoli in europanto in diversi giornali europei, dopo che a New York è andata in scena una commedia in europanto, che l’europanto è utilizzato come strumento di sensibilizzazione linguistica in alcune scuole svizzere, che è oggetto di tesi di laurea in università europee e americane, di articoli scientifici, di spot pubblicitari e di trasmissioni radiofoniche e televisive, mi sono reso conto che i miei interlocutori non si accontentavano più di una risposta così semplicistica. Mi è stato fatto notare che raccontare storie in europanto, esprimere idee in europanto, faceva del mio gioco una lingua a tutti gli effetti, di cui dovevo render conto e che mi obbligava a supporne una grammatica. Ho quindi cercato di esaminare a posteriori la lingua che ho inventato e di dedurne un funzionamento che per me, nello scrivere, era assolutamente istintivo.
L’idea basilare dell’europanto è quella di ricorrere, ai fini della comunicazione linguistica, a quel che mi piace chiamare giacimenti di significato mai sfruttati, che attraversano tutte le nostre lingue ed i nostri paesi, proprio come vene sotterranee di un minerale greggio ma preziosissimo.
Il primo e più importante giacimento di significato da cui l’europanto attinge le proprie parole è il latino. Infatti, costruendo le parole dell’europanto su base latina, posso ottenere la comprensione di una grande maggioranza di europei. Perché tutte le nostre lingue contengono parole d’origine latina, e non solo le lingue romanze. L’inglese, per esempio, nasconde sotto una pronuncia mimetica tantissime parole di origine latina. Un esempio fra i tanti: la parola inglese juvenile, che ha la stessa radice latina in quasi tutte le lingue europee. Così, la grande diffusione dell’inglese aiuta indirettamente l’europanto, perché rende ancora più diffusa la conoscenza delle radici latine. Un tedesco o un danese non troveranno molte parole di origine latina nelle loro lingue rispettive, ma sarà la conoscenza dell’inglese che permetterà loro di capire le parole di origine latina dell’europanto.
Il secondo giacimento di significato dell’europanto è rappresentato dalla grande panoplia di quelle che io chiamo ‘parole senza frontiere’. Se dico muchacha, bazooka, blitzkrieg, hasta la vista, buffet, coiffeur, kaiser, hooligan, pizza, mamma, napoli, mafia, kindergarten, würstel, macaroni, bundesbank, chili-con-carne, bravo, cabriolet, maestro, penalty, kick-off, corrida, paella, corner, canapé, panzer, spaghetti, corner, sombrero, sayonara, chauffeur, allegro, leitmotif, föhn, kaputt, reich e così via, probabilmente non saprete dirmi con precisione da quali lingue sono prese tutte queste parole, ma le capirete tutte con grande facilità. Questo giacimento è preziosissimo per l’europanto, perché da queste parole io posso costruirne altre, produrre verbi, participi, aggettivi, con la certezza che saranno universalmente compresi. Allo stesso modo sono utilizzabili le parole della pubblicità, le marche di prodotti conosciuti, i nomi di automobili, i nomi di calciatori o atleti famosi. Si tratta sempre e comunque di parole che non hanno frontiere. Per esempio, se vi parlassi di eine fussballero ronaldose acrobatias performante, senza conoscere il significato di queste parole ne capireste il senso.
Abbiamo visto come l’europanto sfrutti questi giacimenti di significato per formare il suo vocabolario. Ma per funzionare, per macinare parole e produrre significati, ogni lingua, anche quelle inventate, ha bisogno di una grammatica. Vedremo ora come funziona la macchina grammaticale dell’europanto. A dire il vero, l’europanto non ha una vera e propria grammatica nel senso classico del termine, cioè con regole, eccezioni, verbi regolari e irregolari. Anche qui, l’europanto approfitta ancora una volta dell’inglese ed appoggia la sua liberissima struttura ai pilastri principali della grammatica inglese, quelli che sono a tutti familiari, anche con una conoscenza elementare dell’inglese. Così, il passato dei verbi finisce in –ed, il futuro e il condizionale si fanno con dei modali semplificati, il plurale si fa aggiungendo una –s alla fine del sostantivo. Ma per altri elementi grammaticali, l’europanto ha preferito ricorrere al tedesco. Dal tedesco l’europanto prende le congiunzioni, i pronomi, gli articoli, gli aggettivi e pronomi dimostrativi, qualche participio passato. Si noti ancora una volta che nel panorama grammaticale europeo ho scelto modelli grammaticali facilmente riconoscibili, taluni per la loro diffusione, altri per fattori intrinseci o di evidente somiglianza. Non tutti conoscono il tedesco, ma dopo due volte che si incontra la congiunzione und, si capisce benissimo che cosa vuol dire. Il possessivo meine è analogo in tutte le lingue europee, dall’inglese my al francese mien allo spagnolo mi. Quanto all’inglese, è diventato il sottofondo del brusio linguistico europeo e forse mondiale. Un inglese talvolta sporco, approssimativo, telegrafico ma comunque comunicativo, che influenza il nostro modo di esprimerci e entra nelle nostre lingue.
Passo ora a due esempi di europanto, uno elevato e uno popolare. I primi undici versi della Divina commedia:
Des meine life nel medio van der way
finde myself in eine bosco oscuro
de justa via nesciente donde stay.
Dicere wat ich felt est mucho duro
porqué van de foresta racontante
der terrible horrore non enduro
So close was aan der morte semblante;
Aber por say der bene dat Ich finde
shal Ich descrive wat was Ich voyante.
How zum ingehen raconte no potest
porqué por ein momento sleepingante
correcta meine via hadde geloste
E la canzone Romagna mia:
Maxima nostalgia des passado
Quando que meine mamma abandonado
How coudde moi forget des kleine hause
In diese noche stellose
Voilà ein tormentose canzone por toi
Romagna meine
Romagna in flower
Esse die stella, esse die liebe
Quando reminde
Woudde zubacke
Zum mein muchacha
Zum mein baraque
Romagna, Romagna meine
Zu mucho away
No puedo stay
Che cosa potevo volere di più? Una lingua tutta mia, personale, che mi caratterizzava e mi individuava come unico locutore e scrittore. L’europanto aveva tutto per servire i miei scopi. Mi è certamente servito come lingua di scrittura e ancora oggi la uso. Ma mi sono presto accorto che tutto quello che fa dell’europanto la sua forza è anche la sua debolezza. L’universalità di comprensione, l’intuitività e inesorabilmente anche l’ironia che trasmette fanno dell’europanto una lingua imprecisa, le cui parole hanno campi semantici indefiniti e molteplici proprio perché scavalcano diverse lingue. Lo scrittore invece ha bisogno di quella punta di sismografo, di quel bisturi che separa nettamente ogni significato dall’altro, nell’illusione di esprimere proprio quella sensazione e non un’altra.
Così sono ritornato all’italiano o meglio al mio italiano, che non è quello di ogni altro scrittore o lettore e sarebbe interessante studiare le diversità d’uso e di significato delle stesse parole in scrittori diversi. Nel romanzo Diario di un reduce lo scrittore serbo Miloš Crnjanski usa decine di volte l’aggettivo rubicondo, in serbo рудди (pron.: ruddi). Ma l’uso di questo aggettivo in contesti che non hanno nulla a che fare con il suo significato specifico lo rende un vocabolo proprio della lingua di Crnjanski la cui connotazione personale si perde in italiano.
Questa pista di riflessione mi porta anche a ragionare sulla traduzione. La traduzione ha acquisito in tempi recenti l’apprezzamento e il riconoscimento che merita. Senza traduzione non esisterebbe una cultura europea, non sarebbe mai avvenuto quel costante dialogo fra culture che nei secoli ha costruito una cultura condivisa. Oggi più che in passato ci accorgiamo che tradurre è un lavoro di precisione, proprio quella trasposizione di significato fra una lingua e l’altra che non si può affidare solo ad una sostituzione di parole. Sappiamo che tradurre è in una certa misura riscrivere. Addirittura abbiamo esempi di romanzi stranieri che sono stati riscritti in italiano e non propriamente tradotti. Un illustre esempio è Tortilla Flat di John Steinbeck nella traduzione di Elio Vittorini (John Steinbeck, Pian della Tortilla, Bompiani, Milano 2014). Grandi classici del passato ma anche di un recente passato spesso vengono nuovamente tradotti in una lingua più moderna e più comprensibile per il lettore di oggi. E qui sta la questione che vorrei sollevare. Perché siamo così attenti ad aggiornare la traduzione e non ci interessa aggiornare la lingua dell’originale? Dei grandi romanzi dell’Ottocento esistono traduzioni diverse ma Madame Bovary è sempre scritto nel francese di Flaubert, in fondo una lingua oggi inattuale. Perché l’originale francese è considerato un’opera d’arte inalienabile e la traduzione italiana invece è soggetta ad invecchiamento? La traduzione ringiovanisce l’originale antico, certo. Ma siamo sicuri che questo sia un procedimento corretto? Non dovremmo invece tradurre un testo nella nostra lingua del tempo in cui fu scritto il suo originale? Questa è solo una delle contraddizioni della traduzione. Si pensi ancora alla poesia, dove musicalità e significato si fondono nello scandire di un metro o anche in versi liberi che nessuna traduzione può riprodurre. Leggendo poesia tradotta ci accontentiamo del significato delle parole ma perdiamo i suoni e il ritmo. Oppure, leggiamo un suono e un ritmo inventato dal traduttore, quindi una riscrittura dell’opera che per quanto precisa è sempre arbitraria o addirittura diviene una nuova opera, propria del traduttore, non più dell’autore. Molti grandi scrittori del passato non avevano a disposizione traduzioni. Per leggere le letterature straniere ne imparavano la lingua. A voler perseguire la massima coerenza, questo dovrebbe essere l’unico modo di leggere. Ma così ci sarebbero inaccessibili grandi opere della letteratura mondiale.
Serve quindi sempre un compromesso, sia al lettore che allo scrittore. Il lettore dovrà accettare la lingua tradotta da un’altra lingua ma anche la lingua personale di ogni scrittore, accettando di capirne sempre solo una parte. Quanto allo scrittore, gli toccherà continuare ad usare uno strumento imperfetto, uno scalpello che gli si trasforma fra le mani, l’ago di un sismografo che trema assieme al terremoto.
4 Commenti
Marcello Sassoli 12 Luglio, 2020
L’europanto è stata un’invenzione geniale. La farei risalire al grammelot ripreso da Fo. La lingua si muove nel tempo e si codifica a seconda delle situazioni storiche. Saltare sul bus espressivo è segno di grande duttilità ed intelligenza. Pensiamo a tutti i significati e significanti diversi se attraversiamo le Alpi e ad esempio entriamo nei territori di cultura slava ed anche nelle pianure magiare. Il mercato è una piazza (piàcc) e assume un significato molto più vasto.Cosi’ di seguito.
vilas 31 Luglio, 2020
Ich pense that europanto deber etre aprendido from bambino in first Schule. Porquè est eine lingua vraiment bella und wonderful. Naturlisch è one idioma nicht pour alles alles pero para the persons que habe amore for les languages. Aussi le love pour le lingue deber etre be taught in scuola . Para mi many gens pueden verstand lo que ich estoy scrivendo here. Ich suis Italian und puede comprendre anglais portuguesh hispaniol french and un poquito de german. Idiomas are la migliore way de communiquer mit other peuples . Adelanto with Europanto!
Claudio Paroli 26 Giugno, 2022
Grande!
Marco de Grandis 11 Febbraio, 2024
Io ho inventato una lingua artificiale, chiamata euriziano, derivata dal latino di cui mantiene i suoni e l’impostazione,ma che risulta molto più semplice da imparare. Per saperne di più basta consultare il sito : http://www.euriziano.eu. È una lingua che potrebbe avere le caratteristiche per ambire ad essere la lingua comune europea da affiancare alle lingue nazionali della UE
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