Nicola Grandi
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Avvertenza per lettrici e lettori: articolo assai poco politically correct e volutamente provocatorio!
La scorsa settimana, con questi lockdown a ritmo di stop and go, stanco di mail, webinar ecc., ho deciso di prendermi un break dallo smartworking, ho spento la webcam del mio laptop, ho afferrato il tablet e ho gironzolato un po’ sui social network. Visto che in fondo linguista sum e che linguistici nihil a me alienum puto, sono finito in alcuni gruppi in cui si dibatte di questioni appunto linguistiche, nei quali ho trovato numerosi post, con tantissimi like, relativi ad una presunta invasione, nella nostra lingua, di anglicismi, anzi sarebbe meglio dire anglismi visto che anglicismo è a sua volta un anglismo (tagliamo la testa al toro e optiamo per inglesismi, ok?).
Ma l’italiano sta davvero subendo questa azione di colonizzazione da parte dell’inglese? Gli inglesismi sono davvero così tanti? Che dati possiamo usare per rispondere a queste domande?
Si tratta di questioni troppo ampie per essere trattate qui e, dunque, non proverò neppure a rispondere. Mi limiterò a qualche considerazione generale, ‘di principio’, non prima di aver posto tre premesse.
La prima: del tema si sono occupati/e tantissimi/e colleghi/e, con prospettive diverse. La letteratura, sia scientifica, sia divulgativa, è vastissima. In questa sede mi limito a rinviare a un bellissimo contributo di Tullio De Mauro pubblicato su Internazionale il 14 luglio 2016, dal quale traggo alcuni degli spunti che trovate in queste poche righe. E del quale condivido, come usa dire, anche le virgole.
La seconda: chiunque faccia ricerca sa che ogni ipotesi deve essere fondata su dati certi e accessibili a tutta la comunità scientifica e non su sensazioni personali. Ebbene, l’idea che ci si fa leggendo molti degli interventi sui social network è invece proprio quella che si tratti di considerazioni dettate da impressioni ed esperienze personali. Quindi non di generalizzazioni con qualche valore scientifico.
La terza: io sono un ‘linguista generale’, l’obiettivo della mia ricerca (tra gli altri) è quello di capire che tipo di lingua usano i parlanti in situazioni reali, senza esprimere giudizi di valore e senza alcun intento ‘militante’. Non voglio, in sostanza, orientare i parlanti; voglio osservare ciò che essi fanno spontaneamente. E cerco, poi, di spiegare i loro comportamenti (soprattutto nei casi in cui si osservi una divaricazione tra ciò che i parlanti fanno e ciò che, invece, dovrebbero fare).
Detto questo, qualche osservazione potrà forse aiutarci se non a quantificare il fenomeno di cui stiamo parlando, almeno a vederlo nella prospettiva che a me pare adeguata.
Partiamo da una considerazione di base: il prestito linguistico è un fenomeno di norma asimmetrico, cioè una lingua dà in prestito e un’altra lingua riceve in prestito senza dare nulla in cambio. Non è un baratto, insomma. Nel caso in questione, se l’italiano attinge a piene mani dall’inglese, l’inglese non ricambia affatto e prende in prestito dall’italiano pochissime parole (prevalentemente legate agli ambiti della moda e del cibo). Il rapporto tra le due lingue è perciò gerarchico e indica una certa ‘sudditanza’ dell’italiano rispetto all’inglese.
Ma le lingue sono oggetti immateriali e non vivono di vita propria: riflettono, piuttosto, comportamenti e atteggiamenti dei loro parlanti. Questa ‘sudditanza’ (termine forse eccessivo, ma indicativo), se c’è, è quindi dei parlanti, non della lingua. Il problema, più che l’italiano, è dunque l’Italia. Nel nostro paese non c’è forse la convinzione che tutto ciò che viene fatto oltre i confini sia, di default, migliore di quello che facciamo all’interno dello stivale (isole comprese)? Ad esempio, per restare all’ambito che conosco meglio, dobbiamo avere, per concorsi e selezioni nazionali, membri stranieri nelle commissioni; oppure, un lavoro pubblicato su un giornale parrocchiale dell’Idaho vale più di un lavoro pubblicato sulla più prestigiosa rivista italiana del settore. Insomma, siamo un paese in cui internazionale è diventato sinonimo di straniero!
E, di fronte a ciò, il problema sarebbe l’uso di lockdown al posto di confinamento?
Se questo è il quadro è evidente che agire sulla lingua ha poco senso, se non si agisce anche sui parlanti e sulla percezione che hanno della propria lingua. Anzi, forse sarebbe sufficiente agire solo sui parlanti e la lingua si adeguerebbe da sé. Quindi, prima di proporre alternative native ai termini inglesi (che spesso sono assai meno recenti di quanto si pensi), occorre chiedersi per quale ragione così tanti parlanti preferiscano ricorrere a prestiti da un’altra lingua per esprimere concetti per i quali avrebbero a disposizione parole italiane. L’uso è sempre il signore della lingua e raramente i parlanti fanno quello che viene loro imposto e suggerito, soprattutto in contesti familiari e poco sorvegliati, cioè nelle situazioni in cui la lingua è più viva e più interessante. I parlanti fanno quello che si sentono di fare, usano le forme che reputano più adeguate, soprattutto nell’ottica di una maggiore e migliore affermazione sociale. È dunque evidente che oggi la percezione diffusa, per i parlanti, è quella per cui usare termini inglesi sia più cool; insomma, se mi è permesso, che ‘faccia figo’ dirlo in inglese. E questa percezione è supportata dal convincimento, errato, che l’inglese sia una lingua facile e per questo più adatta a una comunicazione rapida ed efficace. Se questo è il trend, anzi – chiedo scusa – la tendenza, a poco servono i richiami a usare equivalenti italiani, soprattutto se chi occupa posizioni apicali della società non dà il buon esempio. Ridiamo quindi agli italofoni la sensazione che parlare italiano sia motivo di orgoglio e di affermazione sociale. “Intanto partiamo dalla lingua”, potrebbe obiettare qualcuno/a. Eh no! La lingua, in quanto manifestazione sociale della nostra facoltà di linguaggio, è sempre una conseguenza, mai una premessa.
Per usare un’immagine che richiama una situazione con la quale, purtroppo, abbiamo sviluppato fin troppa confidenza, gli inglesismi stanno all’italiano come un po’ di alterazione sta ad una infezione virale: sono il sintomo di qualcosa che ha radici diverse. Per eliminare il sintomo, non si deve agire su esso, ma sulla causa che lo ha determinato. Rimossa la causa, il sintomo sparisce.
Tutto questo discorso però dà per scontata una premessa che invece meriterebbe (non qui) qualche approfondimento. La lingua è ‘solo’ uno strumento di comunicazione o è, invece, un elemento imprescindibile di un’identità nazionale? Perché se la lingua è uno strumento di comunicazione, allora una volta che la trasmissione del significato da mittente a destinatario è garantita non si pone alcun problema. Se invece alla lingua attribuiamo un qualche ‘carico ideologico’ allora diventa ragionevole perseguire l’integrità della varietà standard-normativa, al di là della mera trasmissione di un messaggio.
Questione troppo spinosa e troppo complessa per essere affrontata in queste poche battute.
Vale invece la pena soffermarsi su un altro aspetto: posto che sia lecito e legittimo ‘misurare’ il grado di purezza di una lingua, per farlo occorre avere ben chiaro che il lessico, su cui si concentra in modo esclusivo l’attenzione dei curiosi e dei puristi, è assai complesso e variegato. Ed è certamente il livello della lingua più esposto alle ‘perturbazioni’ provenienti dall’esterno. È più o meno come il colore dei capelli: cambia naturalmente nel corso degli anni (ma questo vale solo per chi, contrariamente a me, i capelli li conserva); ma può cambiare anche ‘forzatamente’ applicando tinture dalle tonalità più o meno eccentriche.
Giudicare una lingua osservando il lessico senza considerare la sua articolazione interna è come giudicare una persona dal colore dei capelli! Il lessico di una lingua si struttura in strati diversi, alcuni più innovativi, mutevoli e vulnerabili, altri assai più conservativi. Tra le aree del lessico più impermeabili al mutamento ci sono, ad esempio, quelle che rimandano al lessico di base, cioè a quell’insieme di parole che si presume tutte le lingue abbiano a prescindere dai contesti culturali in cui si sono sviluppate (ad esempio i termini per le parti del corpo, per i legami di parentela di sangue, per i principali fenomeni atmosferici, ecc.). E ci sono le cosiddette parole funzionali, come le preposizioni o le congiunzioni, che indicano, cioè, pure relazioni grammaticali. Se è molto facile che una lingua prenda in prestito un vocabolo per designare un concetto nuovo, è molto più difficile che questo avvenga per le forme usate per indicare concetti ‘universali’ o relazioni grammaticali. Questo vale anche se scendiamo oltre il livello della parola e ci addentriamo in quello degli affissi: se una lingua usa, ad esempio, suffissi per formare il plurale dei nomi, il tempo dei verbi ecc. è assai raro che queste forme possano essere scalzate da forme straniere con lo stesso valore. Ecco, se questo avvenisse, allora un po’ di preoccupazione sarebbe legittima, perché il contatto linguistico sarebbe in questo caso sintomo di una pressione enorme da parte di un’altra lingua e quindi di un’altra cultura. Ma finché il contatto si limita a strati del lessico superficiali e molto ancorati a situazioni contingenti, come nel caso di lockdown, credo si possa tutto sommato stare tranquilli.
Per concludere, if per caso I avessi scritted this articolo with a different stile and, soprattutto, using many terminis or elements grammaticali inglesi, then sì che it should be the caso of preoccuparsi!
Da linguista, suggerirei a tutti un approccio più soft: keep calm, take it easy, in attesa dell’annunciato vaccine day!
E buon Natale o Merry Christmas a tutti e a tutte!
11 Commenti
Lucilla Lopriore 25 Dicembre, 2020
Couldn’t agree more,
grazie…
Marta Maddalon 26 Dicembre, 2020
“Giudicare una lingua osservando il lessico senza considerare la sua articolazione interna è come giudicare una persona dal colore dei capelli!”
Esatto, per questo, da linguista generale con trascorsi, tra l’altro, da sociolinguista da ormai un quarantennio, mi sento come se facessi un altro lavoro. La maggior parte degli interventi nei media, i più famosi ‘linguisti’ del momento, quelli che dimostrano come divulgazione scientifica e pubblicità spesso siano interscambiabili, parlano di parole. Certo glielo chiedono, questo va detto a loro parziale discolpa, ma si potrebbe rispondere che la linguistica è anche altro. E non meno interessante. Ad esempio, avete mai visto come parlare di ‘parole’ dalla prospettiva etnolinguistica sia arricchente e stimolante? Tipo capire che la lessicologia non esaurisce esattamente il rapporto tra parole, cose e esseri umani. E poi, da sociolinguista militante, le lingue di minoranza o i dialetti (sì i DIALETTI) hanno maggiori chance di sopravvivere proprio grazie ai mescolamenti e ai prestiti, integrati o meno.
Sabrina 29 Dicembre, 2020
Molto interessante!!
Agostino Bresciani 29 Dicembre, 2020
Il lessico non è l’unico componente di una lingua ma ne è certamente uno dei più importanti e lo caratterizza fortemente. Il fatto che si possa ormai formulare una frase come quella ironicamente riportata dall’autore all’inizio dell’articolo fa capire quanto la situazione sia grave. A me non interessa sapere che posso ancora dire “pane” e “latte” in italiano (sempre che qualcuno domani non cominci a definire in inglese anche quelli, vista le numerose parole italiane esistenti che vengono sostituite da anglicismi), mi interessa invece che la mia lingua sappia definire anche concetti nuovi, nei più vari settori, con i suoi strumenti. I mezzi di comunicazione hanno un’importanza enorme: per restare in tema pandemia, perché continuano a dire “lockdown” invece di “confinamento” (in francese si dice “confinement”, in spagnolo “confinamiento”)? Perché continuano a dire “smart working” invece di “lavoro agile” (che tra l’altro è cosa diversa dal “telelavoro”, forma di lavoro maggiormente praticata a distanza durante il confinamento)? Qualcuno li ha informati che questi anglicismi possono essere tradotti in italiano? Il risultato è che chi ascolta un telegiornale o legge un quotidiano ripeterà questi termini, non conoscendo traduzioni italiane già esistenti o possibili. Così succede per la maggior parte degli anglicismi. In francese e in spagnolo tutto ciò non avviene o avviene in maniera nettamente minore rispetto all’italiano, è veramente triste doverlo constatare.
Francesca Donazzan 30 Dicembre, 2020
Vi propongo un esempio contrario, sempre tratto dall’attuale situazione. E’ più evidente, senz’altro, la diffusione capillare del termine ‘lockdown’ rispetto al corrispettivo italiano. Ma vorrei condividere un caso che mi ha colpita, riguardante una “rivitalizzazione”, se così si può chiamare, di un termine italiano non caduto in disuso, ma di certo non così frequente nel parlato prima della pandemia, specie di ragazzini. Prima media, argomento: nomi collettivi. Il libro fornisce delle definizioni, i ragazzi devono trovare il collettivo corrispondente. Definizione: un insieme di persone. Oltre ai consueti ‘gente’, ‘folla’, ‘gruppo’, gli alunni mi hanno proposto ‘assembramento’. Ora, è vero che non è una parola desueta, ma quanti undicenni avrebbero usato la parola ‘assembramento’ prima del 2020? La realtà rimette in circolo le parole, ne richiede di nuove, infonde una linfa a volte diversa (questa è un’altra storia, ma sarebbe interessante soffermarsi sulla percezione attuale che ha un’espressione prima solo positiva come “Sono positivo”, “Bisogna essere positivi”…).
antonio zoppetti 04 Gennaio, 2021
Il solito falso mito per cui la lingua la fanno i parlanti andrebbe un po’ approfondito, mi pare. L’esempio di lockdown calza davvero male: non è affatto preferito dai parlanti; a partire dal 17 marzo 2020, visto che la stampa inglese aveva parlato del caso dell’italian lockdown, è stato imposto senza alternative dai giornali fino a che non è diventato “prestito di necessità”. Non sono i parlanti a fare la lingua, in questi casi, come nel caso del cashback di stato, sono invece i media, i politici, le multinazionali statunitensi che impongono il loro linguaggio (follower, snippet, downolad), il mondo del lavoro, la classe dirigente… e cioè quelli che Pasolini chiamava i centri di di irradiazione della lingua. Tutto ciò è diverso dalla cosiddetta lingua dell’ok, dove sono effettivamente i parlanti a preferire le espressioni inglesi, e che caratterizzava gli anglicismi degli anni Cinquanta e Sessanta ftta di blue jeans, flipper (pseudoanglicismo), jukeboxe e rock. I nuovi anglicismi sono imposti ai parlanti dall’alto, da una classe dirigente colonizzata nella mente, e sostenere che l’interferenza lessicale è superficiale ed è come giudicare le persone dal colore dei capelli non è affatto condivisibile. Non si può salvare una lingua conteggiando le preposizioni e le congiunzioni, non si può far finta che 4000 parole inglesi entrate nei nostri dizionari, che per la maggior parte spezzano la nostra identità linguistica, e cioè le regole della nostra grammatica e fonetica, sia qualcosa di marginale. Non si può nemmeno continuare a ignorare un fatto che caratterizza l’interferenza dell’inglese ma che non si è mai riscontrato nel caso di francesismi, ispanismi e per gli altri forestierismi: l’inglese prende vita, si creano ibridi come screenare e fashionista, le radici inglesi si ricombinanocreando una rete sempre più fitta di parole inglesi e pseudoinglesi intrecciate tra loro (baby killer, zanzare killer… smart working, covid pass, covid hospital, covid center), si creano nuove regole formative per espressioni come election day, familiy day…no vax, no mask,no global… e questo è un segnale di creolizzazione lessicale ampio e profondo; alcuni anglicismi occupano la grarchia alta delle parole e fanno morire le alternative italiane (come computer ha ucciso il calcolatore, relegato al vecchuime perché l’italiano non si sa più evolevere) e oggi si parla del settore food, l’economia diventa economy (new, green, blue….) e il 50% dei neologismi del nuovo Millennio è in inglese puro!
Nicola Grandi 05 Gennaio, 2021
La ringrazio per il commento, rispetto al quale dissento.
Segnalo solo alcune note a margine, che integrano quanto ho scritto nell’articolo.
Sarei curioso di capire da dove estrae i dati quantitativi che riporta, che offrono molti spunti meritevoli di approfondimento.
Mi chiedo e Le chiedo quali prestiti hanno ‘spezzato’ le regole della nostra grammatica e la fonetica. Per inciso, dubito c’entri la fonetica, forse sarebbe meglio spostare la prospettiva sulla fonologia e qui la domanda è: quali nuovi foni si sarebbero fonologizzati in italiano a seguito del contatto con l’inglese? E torno sulla grammatica: quali nuove regole grammaticali sarebbero entrate nel sistema italiano ‘per colpa’ dell’inglese?
Lei cita composti ibridi che però sono molto diversi tra loro e non possono essere messi sullo stesso piano. Zanzara killer è formato secondo lo schema tipico dell’italiano, con testa a sinistra (es. capo treno, pesce palla, ecc.); se fosse influenzato ‘grammaticalmente’ e non lessicalmente dall’inglese sarebbe killer zanzara. Quindi non c’entra altro se non il lessico: lo schema è… made in Italy! Diverso è il caso di covid hospital, che ha la struttura a testa a destra tipica dell’inglese. In italiano si sono di recente affermati composti ‘nostrani’ con testa a destra, ad esempio acqua scivolo o videoregistratore. Ma anche qui dire che questi composti, oggettivamente devianti rispetto allo schema grammaticali prevalente, sia ‘colpa’ dell ‘inglese è affermazione che andrebbe confermata sui dati. E se fosse, invece, colpa del greco? Anche pediatra è una sorta di composto con testa a destra. Potrebbe essere un concorso di colpa? Boh… forse sì… Ma non si può certo dire che lo schema con testa a destra sia una novità recente nel quadro della ‘grammatica’ della nostra lingua.
Ultimissime considerazioni. Lei dice che l’idea che la lingua la facciano i parlanti è un falso mito. E scrive: “Non sono i parlanti a fare la lingua, in questi casi, come nel caso del cashback di stato, sono invece i media, i politici, le multinazionali statunitensi che impongono il loro linguaggio (follower, snippet, downolad), il mondo del lavoro, la classe dirigente…” Ma… non sono parlanti anche loro? La classe dirigente è fatta di parlanti, no? In genere nativi… Dire che una lingua la fanno i parlanti e che l’uso è il signore della lingua significa considerare due livelli: quello dei centri di irradiazione che cita anche Lei e quello dei riceventi, dei centri di… accettazione. I parlanti sono anche riceventi, anzi soprattutto riceventi. E quindi anche qui la lingua è fatta dai parlanti, quelli che accettano queste ‘mode’ perché, più o meno consciamente, le considerano efficaci comunicativamente.
Scrive anche: “Non si può salvare una lingua conteggiando le preposizioni e le congiunzioni”. Qui nessuno vuole salvare nulla, perché il mio compito non è certo quello messianico di contribuire ad una resurrezione della nostra lingua. Qui di tratta di stabilire il grado di ‘mescolanza’ di una lingua e capire se è legittimo parlare di una lingua snaturata o meno. Ed è oggettivo che per stabilire ad esempio la filiazione genealogica di una lingua si debbano guardare gli strati del lessico più conservativi e ‘interni’, quelli in cui si trovano anche le preposizioni e le congiunzioni.
Sono abbastanza certo che tra qualche anno nessuno userà più cashback, ma continueremo a usare con per il comitativo e ma per la avversativa… E continueremo a dire padre e madre, braccia e gambe, ecc.
Agostino Bresciani 06 Gennaio, 2021
Tutte queste cavillose disquisizioni non spostano il problema: il linguaggio degli italiani, anche quello quotidiano, è ormai pieno di anglicismi (il fatto stesso che si possa formulare una frase seppur ironica come quella all’inizio dell’articolo lo dimostra) e la classe dirigente e i mezzi di comunicazione, che rappresentano una minuscola parte dei locutori italiani, impongono dall’alto fiumi di parole inglesi poi ripetute da locutori entusiasti ma soprattutto da locutori che non necessariamente lo sono ma che li ripetono non conoscendone traduzioni (il caso di “lockdown” è emblematico). Io non sono affatto convinto che tra qualche anno non si userà più “cashback”, poiché andando a definire quel preciso concetto probabilmente si stabilizzerà nell’uso e sappiamo che in Italia quando un anglicismo fa capolino spesso poi mette radici e quelle radici diventano profondissime (vedi i vari privacy, policy, stalking, computer, smartphone, tablet, streaming, ecc.) Non mi consola sapere che domani potrò ancora dire “madre” o “padre” in italiano (e nemmeno questo è garantito, visti i vari anglicismi che stanno lentamente scalzando corrispettivi italiani anche di uso comune, pensiamo a brand, packaging, food, sold-out, live, ecc.), io vorrei che la mia lingua sapesse evolvere e definire cose nuove nei più svariati ambiti, senza complessi di inferiorità nei confronti dell’inglese.
antonio zoppetti 06 Gennaio, 2021
Grazie della risposta. I dati quantitativi li ho ricavati dallo spoglio dei dizionari, in particolare Devoto Oli (nel 1990 c’erano 1.700 anglicismi crudi; nel 2017 sono diventati 3.400; nel 2020 sono 4.000). Analoghi aumenti si ricavano da Zingarelli (2017 e altre edizioni successive al 1995), Gradit (1999/2006), Gabrielli (2013-2017) e da altri studi; ho pubblicato questi dati in un libro, ma posso rimandarla a un articolo sul portale Treccani che li riassume e contiene una piccola bibliografia (https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/forestierismi.html). Naturalmente i dizionari rappresentano solo uno dei parametri da tenere d’occhio per rendersi conto dell’anglicizzazione dell’italiano. Si può ragionare sulle frequenze che aumentano, e da questo punto di vista è molto utile uno strumento come Ngram Viewr di Google libri, pur con i suoi limiti, oltre che la consultazione dei giornali digitali. E poi c’è almeno da considerare la penetrazione degli anglicismi nel linguaggio comune e in quello di base, e il Nuovo vocabolario di base del 2016 di De Mauro annovera 129 anglicismi (se non me ne è scappato qualcuno e senza conteggiare parole come salvaslip), mentre nella prima edizione del 1980 ce n’erano una decina, sono dunque decuplicati. Lo stesso De Mauro, storico avversatore del Morbus Anglicus di Arrigo Castellani, nel 2017 ha cambiato idea e ha ammesso che siamo in presenza addirittura di uno tsunami anglicus proprio nell’ottimo articolo che lei ha citato e collegato nel suo pezzo.
Sarei curioso di sapere su quali dati si basano le opinioni per cui l’inglese non sarebbe un problema, perché se si conteggiano nelle statistiche le frequenze delle preposizioni o delle congiunzioni per concludere che gli anglicismi sono solo il 2 o 3 percento delle parole di un articolo di giornale, senza lemmatizzare e tenere conto degli andamento zipfiani, si bara e si “salva” l’italiano (cioè si dichiara che gli anglicismi sono pochi) mettendo sullo stesso piano le occorrenze di “e” con le parole inglesi. Così come se si confrontano 4.000 anglicismi con tutto il lemmario storico di un dizionario saranno sempre percentuali basse. Se si va a vedere come stanno le cose eliminando le voci arcaiche, ragionando per categorie grammaticali (gli anglicismi sono al 90% sostantivi o aggettivi in maniera minore), o per datazione le cose cambiano: da Devoto Oli e Zingarelli risulta che tra le parole nate negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi crudi rappresentavano rispettivamente il 3 o il 4%, negli anni Sessanta sono diventati tra il 6 e il 7%, negli anni Settanta il 9-10%, negli anni Ottanta il 14-16%, e negli anni Novanta il 27-28%, negli anni Duemila siamo intorno al 50%. Siamo sicuri che vada tutto bene e sia tutto normale?
Passando da questa oggettiva, e non “presunta”, invasione degli anglicismi al problema di come snaturano la nostra lingua, lei ha perfettamente ragione a parlare più tecnicamente di “fonologia” al posto di “fonetica” che ho usato in senso ampio e impreciso, ma il succo è che gli anglicismi crudi violano nella maggior parte dei casi le regole di scrittura e pronuncia dei grafemi e fonemi della grammatica italiana. Questo diventa un problema solo quando il loro numero e la loro frequenza è tale da snaturare il nostro idioma: l’incipit del suo articolo ben rappresenta un caso di “itanglese”, dove la frequenza di queste parole inglesi è un caso di creolizzazione lessicale che esce dall’italiano storico.
Mettiamoci d’accordo sul significato di “grammatica”: gli anglicismi crudi violano le regole di pronuncia e di ortografia (a parte casi poco frequenti di parole come per es. “film”); non sto dicendo che l’inglese stia influenzando la nostra sintassi, tranne in pochi casi evidenziati per es. da Lorenzo Renzi (Come cambia a lingua, il Mulino 2102) che attribuisce all’interferenza dell’inglese certi spostamenti dalla testa a destra oltre a “grazie per” invece di “grazie di” e poche altre inezie). L’unica interferenza significativa che mi viene in mente in proposito è il cambiamento dell’articolo davanti a W (il whisky o il walkie talkie, ma lo uovo), ma non mi pare un grande problema. Un problema – per la nostra identità linguistica – è invece rappresentato dalla rigenerazione di radici inglesi all’italiana, che sta diventando una sorta di istintiva “grammatica generativa” (se mi consente di usare questa espressione in senso lato) per cui creiamo da soli espressioni con radici inglesi, come smart working o baby gang (pseudoanglicismi), e le ibridiamo con parole italiane (babypensionato). Le tipologie sono tante e se vuole le lascio un altro articolo sul portale Treccani in proposito (https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/ibridazione.html). Non importa se si possono suddividere in tante tipologie, io per contarli li metto sullo stesso piano e complessivamente tra composti di radici inglesi, composti italiano+inglese (non importa se a destra o sinistra), ibridazioni come “computerizzare” e tutte le classificazioni che vuole individuare, sono centinaia e centinaia di parole, che ormai escono dai dizionari e non si possono nemmeno più conteggiare. Questo tipo di “produttività” è un fenomeno che storicamente si registra solo nel caso dell’inglese, le ibridazioni del francese sono nell’ordine di una decina di parole (per es. voyeurismo).
Mi scuso della prolissità. Non voglio convincerla, ma le volevo rispondere esponendo le mie ragioni un po’ meno frettolosamente per non creare equivoci. E la ringrazio di questo scambio. Essere d’accordo è bello, ma non esserlo è proficuo per i lettori che si possono fare la propria idea.
La saluto.
Antonio zoppetti
Giovanni Pontoglio 13 Marzo, 2021
Non saprei quanto si possa davvero esser sicuri che le strutture di lungo periodo della lingua italiana, quali p.es. le parole funzionali o la sintassi, siano indenni dall’influenza inglese, per quanto ovviamente in misura molto minore del lessico, pesr sua natura più volatile. Mi vengono in mente due esempi:
1) su quanto sto per dire non sono sicuro che si tratti effettivamente d’un’innovazione (quindi può darsi ch’io venga smentito), tuttavia mi sembra che espressioni come “il secondo più grande” si siano imposte a spese dell’autoctono “il secondo per grandezza”;
2) l’anglismo è invece patente nel caso di “over” per “oltre”, anche se (per ora?) limitato alle fasce d’età.
Campagna per salvare l’italiano 05 Novembre, 2021
Altro che sostituzioni di vocaboli singoli (e comunque sono migliaia e migliaia, e in moltissimi casi hanno letteralmente ucciso la parola italiana, vedasi “notizie”, “verde”, “pallavolo” o “marca”, ormai in disuso rispetto a news, green, volley e brand).
I risultati a livello sintattico – di struttura – iniziano a vedersi sempre di più.
La parola pseudoinglese “droplet”, introdotta con la pandemia nel 2020, ridicola per un nativo angloparlante, ha sostituito un intero concetto: “distanza di sicurezza”. “Bisogna rispettare il droplet”.
Le “teorie gender” è un altro esempio. “Il family day”, “il no green pass day”, “il revenge dress”, “il bike through”, “pet shop”. Intere locuzioni come “back to school”, “we are hiring”, “storytelling”, sempre più visibili. A Mantova i bidoni della spazzatura sono ora “City Bin”. A Milano un intero quartiere si chiama “UpTown Milan” e un mercato “East Market”. Potrei continuare fino a domani.
Poi, uon è libero di dire che gli piacciono. Ma non capisco l’utilità di voler negare l’evidenza.
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