Riccardo Ginevra
Università Cattolica del Sacro Cuore
Se lavorate con la linguistica, o in generale vi interessate di questioni linguistiche, potreste aver sentito parlare recentemente di questa notizia: un team di ricerca che fa capo ad un genetista dell’Università di Harvard sostiene di aver identificato con notevole precisione dove e quando si parlava il protoindoeuropeo. Ma cosa vuol dire protoindoeuropeo, chi parlava questa lingua e soprattutto: cosa c’entra la genetica con il linguaggio? Andiamo per ordine.
Partiamo dai termini “protoindoeuropeo” e “indoeuropeo”. Avete mai notato come la parola italiana madre assomigli parecchio alla sua traduzione inglese mother? Non si tratta di influenza dell’inglese sull’italiano, quella che ci fa dire computer invece che calcolatore (un termine ormai in disuso): già in latino si diceva māter, millenni prima che i prodotti culturali in lingua inglese raggiungessero il prestigio che hanno ora (e comunque in inglese antico ‘madre’ si diceva mōdor). Secondo le linguiste e i linguisti che se ne occupano, ci sono tantissime somiglianze di questo tipo non solo tra l’italiano e l’inglese, ma anche tra queste e tante altre lingue parlate (almeno originariamente) tra Europa e Asia dall’antichità fino ai giorni nostri – come il gallico, il greco, il lituano, il bulgaro, l’armeno, il persiano, l’hindi – e tantissime altre. Le corrispondenze tra queste lingue, che chiamiamo appunto “lingue indoeuropee” (perché le loro più antiche attestazioni si collocano principalmente tra India ed Europa), sono così numerose e sistematiche da permetterci di ricostruire per tutte loro un unico antenato preistorico (cioè precedente all’adozione della scrittura): una lingua parlata più di cinquemila anni fa da cui tutte le lingue indoeuropee si sono sviluppate e diversificate nel tempo, e che chiamiamo quindi “protoindoeuropeo” (il prefisso “proto-” in linguistica storica significa semplicemente ‘antenato ricostruito’ – non ‘primo’ come la parola greca da cui ha origine, prôtos). Ad esempio, confrontando le parole per ‘madre’ nelle varie lingue indoeuropee possiamo ricostruire la parola corrispondente per ‘madre’ in protoindoeuropeo, che suonava su per giù (semplificherò leggermente le ricostruzioni per renderle più chiare) come *máhtēr o *mā́tēr. L’asterisco preposto alla parola significa ‘parola ricostruita’, cioè parola che non è attestata direttamente da fonti scritte, ma è da presupporre scientificamente sulla base delle corrispondenze tra parole storicamente attestate nelle diverse lingue.
Ma non finisce qui: dato che quando ricostruiamo parole del protoindoeuropeo non ne ricostruiamo soltanto il suono (*máhtēr), ma anche il significato (‘madre’), è stato possibile ricostruire tanti aspetti e concetti della realtà preistorica in cui vivevano le persone che parlavano protoindoeuropeo: come il fatto che usassero la ‘ruota’, che chiamavano *kʷékʷlos (/kʷ/ era una labiovelare sorda, la pronunciamo convenzionalmente come il suono iniziale di italiano quello), e che allevassero il ‘cavallo’, detto *hék̑wos (/k̑/ era una velare palatalizzata, pronunciata convenzionalmente come il suono iniziale di italiano chiesa), ma anche la ‘mucca’ e la ‘pecora’, che si chiamavano *gʷṓus e *hóuis (/gʷ/ era una labiovelare sonora, pronunciata convenzionalmente come il suono iniziale di italiano guerra). Per quanto sia difficile avere certezze sulla pronuncia esatta di parole del protoindoeuropeo (ovviamente non esistono registrazioni), ci sono pochi dubbi sul fatto che queste parole siano le antenate di tante parole che usiamo ancora oggi: italiano ciclo (da greco kúklos ‘ruota’) e inglese wheel ‘ruota’, italiano equ-ino (da latino equus ‘cavallo’) e ipp-ica (da greco híppos ‘cavallo’), italiano bue e inglese cow ‘mucca’, italiano ovi-no e inglese ewe ‘pecora’.
Lo studio comparativo delle lingue indoeuropee e la ricostruzione del protoindoeuropeo sono i due obiettivi fondamentali della cosiddetta linguistica indoeuropea o indoeuropeistica, parte della più ampia “glottologia”, il termine con cui si designa in Italia la linguistica storica e comparativa. L’indoeuropeistica è nata ormai più di duecento anni fa, e nel frattempo è arrivata a ricostruire non solo centinaia di parole del protoindoeuropeo, ma anche tanti altri aspetti di questa lingua: da un lato, sono stati individuati tanti mattoncini più piccoli – i cosiddetti “morfemi” (come radici, prefissi e suffissi) – che si combinavano tra di loro in vari modi per formare le singole parole (ad esempio il prefisso n̥– ‘non-, in-’, da cui latino in-, greco a- e inglese un-); dall’altro lato, si sono ricostruiti vari schemi che le parole seguivano quando si combinavano tra loro, anzitutto da un punto di vista grammaticale (sappiamo ad esempio come si costruiva di solito il verbo *doh- ‘dare’, da cui italiano dare, greco dídōmi, antico indiano dádāmi: donatore al nominativo + dono all’accusativo + ricevente al dativo). Una volta riconosciuti questi schemi morfosintattici, è possibile addirittura ricostruire vere e proprie formule poetiche e religiose, come la formula (sostantivo+aggettivo) che designava la “gloria im-peritura” degli eroi, in protoindoeuropeo *k̑léuos ń̥-dʰgʷʰitom (da cui greco antico kléos á-pʰtʰiton e antico indiano śrávaḥ á-kṣitam), o ancora l’invocazione (sostantivo+apposizione) alla divinità suprema, in protoindoeuropeo *diéu pə́hter “o Cielo Padre” (da cui l’invocazione indiana antica díyauṣ pítaḥ con lo stesso significato, la formula omerica Zeû páter “o Zeus Padre” e il nome del dio supremo romano Iuppiter). Ricostruendo formule si può persino arrivare a ricostruire miti protoindoeuropei, come nel caso della formula (verbo+sostantivo) attorno a cui ruotava il mito dell’eroe che uccide il drago: *hegʷʰent hogʷʰim “uccise il Serpente” (con riflessi in varie storie di dèi ed eroi ammazzadraghi in lingue indoeuropee antiche).
Ce n’è davvero per tutti i gusti, e c’è ancora tantissimo da studiare e da ricostruire, da aspetti più astratti della grammatica a parole dal significato molto concreto come quelle per ‘ruota’, ‘cavallo’, ‘mucca’ e ‘pecora’ che abbiamo appena visto. Queste ultime risultano molto utili per identificare chi fossero di preciso le persone che parlavano questa lingua preistorica da cui si sono sviluppate le lingue indoeuropee: mentre il concetto di ‘madre’ è con tutta probabilità universale, non tutte le comunità umane che vivevano durante la preistoria avevano esperienza di ruote, cavalli, mucche e pecore – anzi, il loro numero è relativamente ridotto. Incrociando le ricostruzioni linguistiche con i dati che ci vengono dall’archeologia preistorica è stato quindi possibile ipotizzare che il protoindoeuropeo fosse parlato tra i seimila e i cinquemila anni fa da allevatori nomadi appartenenti a una cultura archeologica della cosiddetta “steppa pontica”, una vasta prateria coperta di erba e arbusti tra le odierne Ucraina e Russia, parte della più ampia “steppa eurasiatica” (che si estende dall’Europa orientale all’Asia centrale). La principale proponente di questa teoria fu negli anni ’70 l’archeologa lituano-americana Marija Gimbutas, che chiamò questa cultura archeologica della steppa “Kurgan”, dal nome russo dei monticelli che queste persone costruivano sopra le tombe. Oggi invece, piuttosto che di “cultura Kurgan” (un termine vago che finisce per includere culture diverse nell’arco di migliaia di anni), in archeologia si preferisce parlare di “cultura Yamna” o “Yamnaya”, da una parola ucraina e russa che significa ‘tomba a fossa’, un altro costume funerario tipico di questa cultura.
Questa teoria aveva un problema, però: per quanto l’archeologia ci dica che intorno a cinquemila anni fa la cultura Yamnaya, anche grazie all’utilizzo di cavalli e ruote come mezzi di locomozione, avesse un’estensione vastissima nella steppa eurasiatica (tra l’Ungheria a ovest e il Kazakistan a est, più di quattromila chilometri), non ci sono tracce di una sua successiva diffusione ulteriore fino ai luoghi dove poi in età storica si parlavano le più antiche lingue indoeuropee, come le odierne Italia (latino), Francia (gallico), Grecia (greco antico), India (sanscrito) o Cina (tocario). In altre parole, se le persone che parlavano protoindoeuropeo erano quelle della cultura Yamnaya e vivevano soltanto nella steppa, come avevano fatto allora le lingue indoeuropee ad arrivare fino alla Spagna e alle Isole Britanniche a ovest e fino all’India e al Turkestan cinese a est, dove questa cultura archeologica non si era mai diffusa?
La risposta a questo enigma è giunta in tempi molto recenti, circa dieci anni fa, grazie a una disciplina che fino ad allora – e comprensibilmente – non aveva mai partecipato al dibattito scientifico su questi temi: la genetica. Non c’è infatti alcun rapporto diretto tra la diversità genetica e quella linguistica: persone con corredi genetici di origine diversa possono parlare la stessa lingua (e questo è la regola in molte parti d’Italia, d’Europa e del mondo), e viceversa persone che parlano lingue diverse possono avere corredi genetici letteralmente identici (ad esempio, due gemelli omozigoti separati alla nascita e cresciuti in parti diverse del mondo parleranno in maniera completamente diversa). Ma le lingue, le tecnologie e i geni hanno una cosa importantissima in comune: non hanno le gambe, quindi si diffondono soltanto quando le persone che li portano con sé si mettono in movimento e vanno in giro per il mondo. Questo significa che, quando le persone si spostano e diffondono i propri geni mescolandosi alle comunità che incontrano, possono diffondere anche le proprie lingue e le proprie tecnologie – come possono anche abbandonarle e adottare quelle del luogo di arrivo (si pensi alle tante persone italo-americane negli Stati Uniti, per la maggior parte delle quali la prima lingua è l’inglese, non l’italiano).
Nel 2015, una volta che le scoperte nel campo dell’analisi del DNA antico hanno permesso alla genetica di tracciare i movimenti di persone preistoriche, la rivista Nature ha pubblicato ben due studi di laboratori in competizione tra loro, uno facente capo al genetista David Reich dell’Università di Harvard e l’altro al genetista Eske Willerslev dell’Università di Copenaghen, che però dimostravano entrambi la stessa cosa: intorno a cinquemila anni fa una serie di migrazioni preistoriche ha portato persone della cultura Yamnaya, quelle che con tutta probabilità parlavano protoindoeuropeo, e persone discendenti da loro a spostarsi verso quelle zone di Europa e Asia dove in età storica si parlavano le lingue indoeuropee. Migrando, queste persone si sono mescolate alle comunità che hanno incontrato, e si sono sviluppate così nuove culture archeologiche miste, come la “cultura della ceramica cordata”, distinte da quella di Yamnaya, che per questo motivo non si estese mai oltre la steppa. Pur adottando nuovi costumi (come l’agricoltura), queste persone hanno portato con sé alcune tecnologie (come l’uso del cavallo) e hanno lasciato importanti tracce genetiche (quelle che ci hanno permesso di seguirle nello spazio geografico) e linguistiche (la diffusione delle lingue indoeuropee, da cui è iniziata la ricerca).
È quindi grazie all’intervento di una disciplina terza, la genetica, che si è risolta la discrepanza tra l’estensione delle lingue indoeuropee antiche da una parte e l’area della cultura Yamnaya (in cui si parlava protoindoeuropeo) dall’altra: in altre parole, tra linguistica e archeologia. Nel frattempo, erano nate ipotesi concorrenti a quella delle steppe, come la famosa “ipotesi anatolica” dell’archeologo britannico (e amico di Gimbutas) Colin Renfrew, scomparso recentemente, il quale ipotizzò che le lingue indoeuropee fossero state portate in Europa dallo stesso flusso migratorio (accertabile archeologicamente) con cui l’agricoltura arrivò dall’Anatolia intorno a novemila anni fa. Essendo il lessico ricostruito del protoindoeuropeo molto povero di termini agricoli, tuttavia, la teoria di Renfrew non è mai stata apprezzata dalla linguistica indoeuropea, finendo poi per essere definitivamente confutata dalle recenti scoperte della genetica, al punto che nel 2017 lo stesso Renfrew ha tenuto una conferenza dal titolo “Marija Rediviva” in cui ha sostanzialmente ammesso che Marija Gimbutas aveva ragione.
Della ricostruzione del protoindoeuropeo, della collaborazione tra linguistica indoeuropea e archeologia preistorica, del contributo recente della genetica nell’identificazione dei parlanti preistorici – e di tanto altro ancora – raccontiamo il giornalista Luca Misculin e io nei cinque episodi del podcast “L’invasione”, prodotto da “il Post” e uscito a fine 2023. Anche grazie a interviste con specialiste e specialisti di fama internazionale (come l’indoeuropeista José Luis García Ramón) e al supporto tecnico di molte persone (come Stefano Tumiati per il sound design), “L’invasione” ha ricevuto un’accoglienza inaspettata sia da parte del pubblico (è stato in assoluto il podcast più ascoltato in Italia a inizio 2024) che della critica (ha vinto due primi premi agli “Italian Podcast Awards: il Pod” del 2024, categorie “Cultura” e “Script”). Si tratta di un dato molto incoraggiante per chi oggi in Italia si occupa di linguistica, e in particolare di linguistica storica: come probabilmente sa già benissimo chiunque abbia visto i volti di studentesse e studenti illuminarsi nello scoprire per la prima volta le connessioni nascoste tra parole dell’italiano, dell’inglese, del greco e del sanscrito, un pubblico a cui interessano queste cose esiste, eccome se esiste, ed è un pubblico relativamente grande. Il podcast può tuttora essere ascoltato sulle principali piattaforme di podcast (come Spotify e Apple Podcast) – occhio però alla sesta puntata bonus, registrata dal vivo ad aprile 2024 a Torino e al momento disponibile soltanto su “il Post” (gratuitamente), una puntata che fa da cerniera tra “L’invasione” e il podcast di Luca Misculin “La fine del mondo” sul cosiddetto “collasso dell’Età del Bronzo”.
(continua…)
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