Leonardo Zanchi
Laureato all’Università di Milano Statale
Il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente inconsciamente. […] Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. […] Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico.
Il filologo tedesco Victor Klemperer (2018: 31-32) descrive così il propagarsi dell’“effetto tossico” dell’ideologia nazista attraverso la parola. Le medesime considerazioni potrebbero essere estese, con le dovute precisazioni, a tutti i sistemi dittatoriali, compreso quello fascista che, com’è noto, utilizzò la propaganda come strumento fondamentale per affermarsi e dominare la scena pubblica. Il controllo delle masse passa dunque per il controllo della lingua, senza che le masse stesse se ne accorgano; la lingua del regime finisce così per permeare qualsiasi aspetto della società dominata dalla dittatura.
Se la lingua del Terzo Reich è stata oggetto di numerose ricerche, decisamente meno approfondito è stato lo studio della lingua e del suo uso all’interno del sistema concentrazionario nazista. Eppure, è proprio nel lager che il linguaggio nazifascista raggiunge il compimento dei propri scopi, trasferendo il contenuto dell’ideologia dal piano verbale a quello reale e concreto: è nel lager che il linguaggio dell’odio trova piena attuazione e plasma la realtà, traducendosi in azione violenta, in umiliazione costante e in sterminio sistematico dei deportati. È questo il concetto che sintetizza efficacemente la senatrice a vita Liliana Segre, quando afferma: “Ho visto le parole d’odio trasformarsi in dittatura e poi in sterminio”.
È possibile constatare che l’uso della lingua nel lager si sviluppa lungo due direttrici fondamentali: da un lato si esprime nella predominanza della lingua denigratoria e violenta dei dominatori, cui si faceva cenno; dall’altro si manifesta sottotraccia nella lingua della speranza, della solidarietà e della resistenza realizzata attraverso la comunicazione fra i deportati.
Sarà perciò utile tratteggiare, in maniera schematica, le caratteristiche e gli aspetti peculiari di questi due versanti della lingua concentrazionaria.
La lingua degli oppressori nazisti è rimasta impressa in molte delle testimonianze scritte e orali dei superstiti italiani. L’impatto iniziale con “quei barbarici latrati dei tedeschi, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli”, come scrive Primo Levi in Se questo è un uomo (Torino, Einaudi, 1976, p. 19), avviene sin dal primo momento in cui i deportati giungono nei lager e vengono fatti scendere dai convogli.
Il personale dei campi si esprime con ordini e insulti. Fra i primi troviamo le espressioni che si sono impresse indelebilmente nelle menti dei prigionieri: schnell! ‘veloce’, los los! ‘su, via, avanti’, Alle raus! ‘tutti fuori’. Fra i secondi, troviamo le parole dell’offesa e dell’umiliazione che costituiscono un tassello fondamentale all’interno del processo di de-umanizzazione cui è sottoposto ogni deportato.
La perdita di dignità della persona comincia durante il viaggio, quando viene ammassata con altre su convogli composti da vagoni solitamente destinati alle merci o al bestiame, e raggiunge il suo culmine nel lager: all’arrivo i prigionieri vengono privati dei loro tratti identitari attraverso la spogliazione degli abiti e la rasatura, fino alla completa spersonalizzazione che si realizza attraverso la perdita del proprio nome, sostituito da un numero di matricola. La de–umanizzazione si riflette perfettamente nel lessico adottato dalle guardie e dal personale di sorveglianza del lager, che si rivolgono ai deportati chiamandoli Stücke, termine tedesco che significa ‘pezzi’, ovvero strumenti per il lavoro forzato, ingranaggi di un meccanismo di annientamento e morte.
Su ogni pezzo ciascuna autorità del campo può avere potere di vita o di morte e si rivolge ad esso con una vasta gamma di termini dispregiativi, su cui ha portato l’attenzione la germanista Donatella Chiapponi (2004: 65-66):
La maggior parte degli insulti era formata da parole composte con Dreck (‘sterco’, ‘fango’), Scheiße (‘merda’), Arsch (‘deretano’), Hund (‘cane’), Schwein (‘porco’) e Sau (‘scrofa’) che diventano prefissoidi che esprimono profondo spregio. […] Tra gli appellativi spregiativi più frequenti: Dreckjude (‘ebreo merdoso’), Drecksack (‘sacco di merda’) […] Scheißmensch (‘uomo di merda’, ‘fifone’), Hosenscheißer (‘cagone nei pantaloni’ i detenuti soffrivano spesso di dissenteria) […] Schweinhund (‘canaglia’, ‘porco’). […] Per le donne venivano soprattutto usati insulti come alte Quatschdose (‘vecchia pettegola’), alte Hure (‘vecchia puttana’), dumme Gans (‘stupida oca’), alte Hexe (‘vecchia strega’).
La violenza verbale si traduce in violenza fisica. Anche le botte e le punizioni corporali finiscono per costituire un vero e proprio linguaggio all’interno del sistema dei campi nazisti. Come mette in luce Primo Levi (Bravo & Jalla 1987: 56):
Tutti i Kapos picchiavano: questo faceva parte ovvia delle loro mansioni, era il loro linguaggio, più o meno accettato; era del resto l’unico linguaggio che in quella perpetua Babele potesse veramente essere inteso da tutti. Nelle sue varie sfumature veniva inteso come incitamento al lavoro, come ammonizione o punizione, e nella gerarchia delle punizioni stava agli ultimi posti.
In un simile contesto, la comunicazione fra compagni di deportazione si realizza in condizioni precarie: durante la marcia quando i deportati sono fianco a fianco, alla latrina o al lavatoio, la sera nelle baracche al termine della giornata di lavoro, prima che venga ordinato Ruhe!, il silenzio che precede il sonno (Martini 2007: 45):
Le giornate si susseguivano monotone: sveglia, appello, lavoro, nuovo appello e finalmente il momento più atteso della giornata al termine della frugale cena: un’ora prima della notte per poter stare tra di noi, tempo quasi tutto trascorso a ricordare ‘l’altra’ vita, quella vera prima della deportazione. Non erano discorsi dominati dalla malinconia, erano i racconti della vita di prima, che ci davano la forza per vivere un altro minuto, un’altra ora, un altro giorno.
In una realtà plurilinguistica come quella del lager, dove sono imprigionate persone provenienti da tutta Europa, comunicare non significa soltanto eludere i guardiani, ma anche superare le barriere linguistiche che dividono i deportati e richiamano da vicino ‘la favola antica’ della Torre di Babele.
È lo stesso Primo Levi a menzionare la torre biblica e l’episodio in cui Dio punisce la superbia degli uomini confondendo le lingue e generando conseguentemente una situazione di incomunicabilità.
La condizione linguistica dei deportati italiani è ancor più particolare e complessa non solo perché la maggior parte di essi non conosce alcuna lingua straniera, ma anche e soprattutto per via del fatto che spesso gli internati non riescono a intendersi nemmeno attraverso la lingua italiana, essendo abituati a parlare quasi esclusivamente il dialetto del proprio territorio d’origine.
Comunicare, tuttavia, è fondamentale per provare a condividere la sofferenza della prigionia, per trovare un minimo di sostegno e conforto nell’altro: parlare è una necessità che porta a superare qualunque ostacolo. Con i prigionieri di nazionalità diversa c’è chi prova addirittura a scambiare qualche parola in latino, pur di trovare una lingua comune, e chi si aggiusta con i gesti.
Argomento comune a molte delle conversazioni riportate dai testimoni delle deportazioni è il cibo: i piatti tipici della propria zona, le ricette della cucina casalinga e il desiderio di non soffrire più la fame costellano tutte le conversazioni dei deportati nei campi nazisti. L’argomento s’intreccia con il ricordo della propria casa, della propria famiglia e della professione svolta prima dell’arresto; sono temi che da un lato destano nostalgia e sofferenza, ma dall’altro alimentano la speranza e il desiderio di tornare a quella vita di donne e uomini liberi.
Fra i deportati politici, arrestati perché oppositori del regime nazista e fascista, persiste, pur clandestinamente, la discussione sugli argomenti di attualità che li hanno spinti a compiere la scelta di lottare per i valori di libertà, giustizia e uguaglianza. Per molti è proprio il contesto della deportazione che rafforza la convinzione di essersi schierati dalla parte giusta, ragione per cui è necessario continuare a resistere (Bravo & Jalla 1987: 194):
Gli uomini politici erano straordinari, questi che avevano un passato politico, che cercavano proprio un modo di continuare la lotta antifascista in qualunque circostanza della loro vita, e quindi anche nel campo di concentramento. Allora succedeva un’aggregazione dei più giovani, di quelli che erano capitati lì come me, per una scelta tra fascismo e antifascismo, ma non per una scelta ideologica. E loro effettivamente impartivano lezioni anche di politica, secondo le loro idee. Certo non te le offrivano dietro una cattedra, te le offrivano purtroppo soltanto al gabinetto, perché non c’erano altri posti in cui tu potessi dialogare e allora mentre eri seduto su quella specie di formaggera con tanti buchi, uomini come Luigi Scala o Jacopo Lombardini, tanto per citarne due, facevano scuola. E quel fare scuola era darti un interesse per la vita.
La parola dei deportati diviene così un vero e proprio strumento di resistenza all’interno del lager. Se, come accennavo all’inizio, la lingua può essere un mezzo per controllare e manovrare gli individui all’interno di un sistema dittatoriale, le testimonianze di chi subì la deportazione ci mostrano che essa è altresì un mezzo per resistere all’omologazione e all’annientamento perpetrato dai regimi.
Comunicare nel lager è un modo per sentirsi vivi: in quel contesto la parola è un mezzo per affermare la propria esistenza nonostante il totale svilimento a cui essa è costantemente sottoposta ed è strumento infallibile per manifestare la propria umanità e la libertà individuale.
Per approfondire
Bravo, Anna & Daniele Jalla. 1987. La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti nel racconto di duecento sopravvissuti. Milano: FrancoAngeli.
Chiapponi, Donatella. 2004. La lingua nei campi nazisti. Roma: Carrocci.
Klemperer, Victor. 2018. LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo. Firenze: Giuntina.
Martini, Marcello. 2007. Un adolescente in lager. Ciò che gli occhi tuoi hanno visto. Firenze: Giuntina.
1 Commento
Elefteria Morosini 29 Aprile, 2021
Sono temi che vanno proposti a tutti i ragazzi, perché capiscano e riflettano
Lascia un commento