Silvia Ferrara
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Globalmente esistono circa 7000 lingue, e di queste 1500+ usano l’alfabeto romano. Questo, in numeri umani, corrisponde a circa cinque miliardi di persone. Il mondo, soprattutto quello occidentale, è immerso nella cultura alfabetica. Se comparato al secondo sistema in classifica, il cinese, che è usato da 1.4 miliardi di persone, e dal terzo, l’abjad arabo usato da 660 milioni, c’è poca competizione. Le ragioni di questa supremazia alfabetica, tanto odiata dal filosofo Derrida, sono storiche e religiose (pensiamo ai missionari colonizzatori), ma sta di fatto che il 72.3% del mondo scrive con un sistema identico, o molto simile, a quello che state leggendo.
Gli alfabeti però non sono tanto interessanti, in primis perché il principio alfabetico non è un’invenzione tanto remota nel tempo. Le varietà più usate, dal latino, al greco, al cirillico, sono state inventate abbastanza recentemente, e nonostante si tenda a pensare che l’alfabeto sia stata una invenzione dei Greci via abjad fenicio, in realtà il meccanismo a livello fonologico risale al Proto-Sinaitico di circa 4000 anni fa, nella penisola del Sinai, quando vari gruppi di Cananei riadattarono il sistema geroglifico egiziano ad una lingua semitica, il proto-cananeo, appunto (Daniels, 1992).
Gli alfabeti sono sistemi semplici, segmentali, in cui ogni segno rappresenta un fonema singolo. La loro semplicità sta nell’economia interna, e in un numero limitato di segni nel repertorio. Generalmente non superano i 30 segni. Uno dei più lunghi, a memoria, è l’ugaritico, che ne ha 33. E anche a Ugarit sulla costa siriana, si è creato un altro mito, che ritroverete se un giorno avrete la fortuna di visitare il sito archeologico o il museo nazionale a Damasco: l’alfabeto ugaritico viene smerciato come l’invenzione più antica di un sistema segmentale, un po’ come il primato spurio dei Greci di aver reinventato la ruota alfabetica con le vocali immesse a sistema.
L’alfabeto più corto al mondo? Il Rotokas, usato per una delle lingue parlare sull’isola di Bougainville in Papua New Guinea. Ha solo 12 lettere, la serie vocalica (A, E, I, O, U) e sette consonanti (B, D, G, K, P, R, T). Questo è perché la lingua Rotokas è foneticamente molto semplice, con pochi fonemi distintivi. Non è un caso che sia stato creato principalmente durante gli sforzi di missionari e linguisti per tradurre testi religiosi e altri documenti nella lingua locale. L’isola è frammentata linguisticamente: solo a Bougainville, il cui territorio è grande più o meno 1/3 della Sardegna, ci sono 19 lingue distinte.
Per fortuna possiamo andare oltre gli alfabeti, e aprire i nostri orizzonti tipologici per vedere uno scenario meno monolitico e uniforme. I sistemi di scrittura antichi e moderni sono vari e diversi (Robinson, 2009). Per la loro categorizzazione tipologica, i piani di analisi da considerare sono due: a. le forme grafiche dei segni, che possono mostrare variazioni incredibili, se pensiamo alle differenze nelle configurazioni tra i segni del cinese 你好 vs il russo привет, e b. il modo in cui i suoni di una lingua sono organizzati (Sampson, 1985; DeFrancis, 1989). I due piani sono spesso interconnessi. Per il secondo aspetto, cioè quello strettamente tipologico, vediamo solo sei categorie (ne tratto solo cinque perché gli alfabeti sono poco interessanti, ma io sono dichiaratamente di parte):
- Featural. In questi sistemi, le forme dei segni non sono arbitrarie, ma riflettono aspetti (feature) fonologici della lingua che rappresentano. I dettagli sono minuti, e vanno ancora più precisamente a descrivere la fonologia di quanto non faccia un alfabeto. I segni, in altre parole, non rappresentano i fonemi, ma gli elementi che compongono i fonemi, come il luogo di articolazione del suono o la sonorità. Ad esempio, il coreano usa la scrittura Hangul, che si basa sui punti della bocca in cui vengono prodotti i suoni. Il simbolo ᄀ può avere suoni leggermente diversi a seconda di dove si trova in una parola, ma il simbolo rappresenta sempre un suono prodotto nella parte posteriore della bocca (Taylor, 1980).
- Abjad. Parola che letteralmente significa abcd in arabo. Tradizionalmente gli abjad rappresentano solo le consonanti di una lingua. Le vocali vengono intuite dal contesto. A volte questi sistemi usano anche segni diacritici (piccoli simboli aggiunti a una lettera principale) per dare il colore vocalico come l’ebraico e l’arabo, che sono noti esempi di lingue che usano un abjad con indicazioni di colore vocalico, quindi sono definiti impuri.
- Abugida. Gli abugida rappresentano sillabe (combinazione di consonanti e vocali) in un unico carattere. Spesso sono costituite da schemi CV, ma anche CCV. Per esempio, il Devanagari, la scrittura usata per la lingua Hindi, è un abugida. Solitamente le sillabe che iniziano con la stessa consonante hanno anche una configurazione grafica simile (il piano di analisi 1 di cui sopra. Vediamo qui le sillabe della serie [k] in Devanagari: क [ka], कि [ki], कु [ku], के [ke], कॊ [ko] o quelle del sistema Ge’ez etiopico ሀ hä [hə] ሁ [hu], ሂ [hi] (con un subdiacritico che comprime la consonante, cambiandone l’altezza) ህ [hə], [hɨ] o [h]. Per questi sistemi diventa un gioco simpatico riuscire a individuale la consonante a livello grafico. Alcuni abudiga sono in un certo senso anche un po’ featural, se ci pensate.
- Sillabario. I sistemi sillabici sono notoriamente complessi, in primis perché la definizione di sillaba è spesso scivolosa. Per semplificare, molti sillabari in uso nel mondo rappresentano, come gli abugida, sillabe con un segno unico, ma a differenza degli abugida, non rendono le sillabe in base a un principio di coerenza grafica – il che significa che a livello di forme, non c’è un elemento di base identificabile in tutte le sillabe con lo stesso suono. Per esempio, nella scrittura giapponese hiragana, i caratteri che rappresentano una “k” più un suono vocalico non hanno un aspetto simile: か [ka], け [ke], き [ki], こ [ko], く [ku] a livello di configurazione sono tutti diversi. Le ragioni sono storiche, visto che l’hiragana è un adattamento dal cinese antico, ma lo stesso vale per il sistema di base CV della lineare B, un sillabario che rende il greco miceneo, che non ha coerenza grafica interna, basti vedere la serie k: .
- Logografia. La definizione di base in un sistema logografico è che ogni carattere rappresenta un morfema specifico, ma attenzione a questa categoria, che è possibile in teoria, ma in realtà non esiste. Non esistono sistemi puramente logografici. Se è vero, per esempio che lo hànzì cinese è formalmente logografico, attraverso questi esempi vediamo che il concetto di sillaba gioca un ruolo notevole: 你 /nǐ/ “tu” 好 /hǎo/ “bene” (v. esempio sopra), 你好 /nǐ hǎo/ “ciao”. Anche un alfabeto come quello romano presenta serie logografiche, basti pensare ai numeri: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 sono tutti logogrammi.
Ora, noi che siamo intenti a categorizzare tutto per rendere digeribili le differenze, dovremmo capire che uno schema troppo rigido va a disservizio della complessità che in effetti riscontriamo nel definire un fenomeno variegato come la scrittura. Schemi a parte, le scritture non sono entità pure e, a tutti gli effetti, sono soggette ad una certa commistione tra tipologie diverse. Non esiste un sillabario o un alfabeto senza logogrammi, e non esiste un sistema puramente logografico senza caratteri sillabici. Per questo non è ammissibile definire il cinese come un sistema ideografico: i caratteri non registrano idee, ma morfemi, che molto spesso corrispondono, o sono espressi da, sillabe discrete. Quindi il sistema cinese è logo-sillabico. Chi li chiama ideogrammi cinesi, verrà sottoposto a tortura (). Tutto questo ci fa capire che, che per quanto ci sforziamo di imbrigliare i sistemi di scrittura in tipologie definite, siamo destinati a fallire, perché i confini sono labili.
Un altro problema è che la narrativa tradizionale ci riporta una storia falsata riguardo l’evoluzione della scrittura, anche a livello tipologico: un’architettura evolutiva che parte con i logogrammi, e passa ai sillabogrammi, all’alfabeto, in una freccia del tempo orientata verso una presunta semplificazione sistemica. Questo schema evolutivo non funziona. Oltre ad essere molto influenzato da una visione alfabeto-centrica, come se l’alfabeto fosse un optimum verso cui tendere, res non tenet. Non ci sono casi di scrittura che si evolva in alfabeto da un prototipo sillabico, né un sistema logografico (definizione inesistente) che faccia da traino a una scrittura sillabica. Il cuneiforme che registra il sumerico di circa 6000 anni fa non è un sistema logografico, ma un sistema logo-sillabico, esattamente come l’accadico (cf. assiro-babilonese) che riadatta la scrittura cuneiforme per un nuovo ceppo linguistico, quello semitico, tenendo la serie logografica (i cosidetti sumerogrammi) e editando pesantemente l’assetto sillabico per registrare una lingua completamente diversa. Dunque, anche da un punto di vista diacronico, la storia non è semplice, e va vista a livello contestuale e non evolutivo (Ferrara, 2019; Houston, 2004).
Tutto questo dovrebbe farci aprire gli occhi sulla nostra storia, e sulla nostra evoluzione umana. In più di seimila anni, abbiamo inventato un oggetto culturale
strabiliante, la scrittura, che ormai permea la nostra società tanto da renderci grafomani. Però le implicazioni sulle tipologie sono cruciali. Scrittura e lingua non sempre vanno pari passu o a braccetto. Per le 7000 circa lingue parlate oggi al mondo, sono attestate a livello storico meno di 300 scritture (293 ad essere precisi). In tutto il mondo. Sono pochissime. Di queste molte sono estinte e altre sono in pericolo di estinzione. Si calcola che oggi l’85% delle scritture usate nel mondo stia raggiungendo il tipping point di obsolescenza, non essendo insegnato nelle scuole o non essendo riconosciuto con uno status speciale o ufficiale. Non tanto come le specie animali protette dal WWF, ma come qualsiasi costrutto artificiale creato ad hoc dagli esseri umani, anche la scrittura è soggetta alle incertezze della storia, alla mercé di alternanze politiche, linguistiche, o religiose. Basti pensare ai fattori storici che hanno permesso all’alfabeto di proliferare a livello globale. Ma se guardiamo dall’alto, vediamo varietà e preferenze locali, vediamo l’immaginazione degli esseri umani nel creare un oggetto culturale nuovo e diverso, che li rappresenti non sono linguisticamente, ma come, appunto, esseri umani. Alla ricerca di una differenziazione, di una dichiarazione di identità e di appartenenza. Nei segni, nelle loro forme, nelle regole di registrazione dei suoni, vediamo il potere della creazione che va ben oltre la lingua e il linguaggio.
Per approfondire
Daniels, Peter T. 1992. The Syllabic Origin of Writing and the Segmental Origin of the Alphabet. In Pamela A. Downing, Susan D. Lima & Michael Noonan (a cura di), The Linguistics of Literacy, 83–110. Amsterdam: John Benjamins.
Ferrara, Silvia. 2019. La grande invenzione: Storia del mondo in nove scritture misteriose. Milano: Feltrinelli.
Ferrara, Silvia. 2021. Il salto: Segni, figure, parole: viaggio all’origine dell’immaginazione. Milano: Feltrinelli.
Houston, Stephen D. (a cura di) 2004. The First Writing: Script Invention as History and Process. Cambridge: Cambridge University Press.
Robinson, Andrew. 2009. Writing and Script. A Very Short Introduction. Oxford: Oxford University Press.
Sampson, Geoffrey. 1985. Writing Systems. A Linguistic Introduction. Stanford: Standford University Press.
DeFrancis, John. 1989. Visible Speech. The Diverse Oneness of Writing Systems. Honolulu: University of Hawaii Press.
Taylor, Insup. 1980. The Korean writing system: An alphabet? A syllabary? A logography?. In Paul A. Kolers, Merald E. Wrolstad & Herman Bouma (a cura di), Processing of Visible Language, Vol. 2, 67–82. New York: Plenum Press.
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