Nicola Grandi
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Da giorni si discute molto della proposta di reintrodurre l’insegnamento (facoltativo) del latino alle scuole secondarie di primo grado, le scuole medie, per intenderci. Il testo delle Nuove Indicazioni Nazionali non è ancora disponibile, quindi stiamo ragionando su indiscrezioni che potrebbero, poi, essere smentite. Tuttavia, visto che, appunto, se ne parla (e non sempre a proposito, soprattutto sui social network), può esser utile cercare di ragionare di questo tema in modo ‘laico’ e, possibilmente, informato. Io di certo non sono la persona giusta per farlo: non sono un latinista e non mi occupo di didattica; su Linguisticamente torneremo su questa questione nelle prossime settimane, leggendo voci ben più autorevoli e competenti. Tuttavia, credo di poter condividere qualche dato che potrà, forse, dare un contributo alla discussione.
Mi baso su quanto Orizzonte Scuola riporta dell’intervento del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, a Cinque Minuti su Rai1:
“Il latino è la palestra della logica e della ragione”, ha affermato Valditara, citando Antonio Gramsci a sostegno della sua tesi. Il latino, secondo il Ministro, non solo insegna ad imparare, ma fornisce anche le basi della nostra grammatica. Valditara ha poi aggiunto una riflessione sull’impegno richiesto dallo studio del latino: “Studiarlo comporta un minimo di fatica“.
Nel suo intervento, Valditara cita anche uno studio dell’Alma Mater sugli errori di grammatica, drammatici, che verrebbero commessi perfino da studenti e studentesse dell’università:
“Ci sono degli studi dal punto di vista della grammatica drammatici, anche dell’Università di Bologna. Errori commessi anche da studenti universitari, errori gravi, i ragazzi che non sanno più scrivere in corsivo, ma soprattutto è importante ridare significato alla grammatica. Negli ultimi 50 anni la grammatica è stata svalutata, la grammatica è cultura della regola, è sapersi esprimere ed entrare in relazione con l’altro”, ha aggiunto riguardo lo studio della grammatica.
Immagino che il Ministro si riferisca ai risultati del PRIN Univers-ITA. L’italiano scritto degli studenti universitari, che ho avuto l’onore di coordinare, che sono stati, purtroppo, molto distorti dalla stampa.
Il volume finale del progetto verrà pubblicato, tra qualche settimana, nella collana Materiali linguistici di Franco Angeli. Qui anticipo o, meglio, spoilero qualche dato che ci permetterà di tornare, poi, alla questione del latino.
Lo scopo del progetto Univers-ITA era quello di mappare per la prima volta in modo sistematico e con un approccio scientifico le competenze di scrittura formale di studenti e studentesse dell’Università. Come è noto, l’idea che la nostra lingua viva una fase di inarrestabile declino è assai diffusa. Così come è diffusa l’idea che oggi la grammatica venga insegnata, studiata e applicata molto meno rispetto a qualche decennio or sono. Questa ‘leggenda’ si arricchisce poi, di volta in volta, di qualche ulteriore ingrediente. Ad esempio, la dismissione del corsivo sarebbe una delle cause del declino; parte della colpa ricadrebbe anche sulle tecnologie; e via dicendo. Su questo tema avremo modo di tornare, su Linguisticamente, nei prossimi mesi. Per ora è sufficiente sottolineare come l’idea di un declino sia difficilmente dimostrabile, dal momento che innanzitutto non è mai esistita un’età dell’oro della lingua italiana, nella quale tutti/e gli e le italiane parlavano e scrivevano applicando alla perfezione le regole della grammatica “ufficiale” e, in secondo luogo, non esiste alcun termine di confronto a cui comparare i dati che abbiamo raccolto nel nostro progetto. Nessuno, in passato, ha mai studiato in modo davvero rappresentativo la scrittura formale giovanile, anche perché solo oggi le tecnologie ci permettono di costruire corpora davvero rappresentativi. L’idea che ci siamo fatti è che il quadro, in realtà, non sia drammaticamente peggiorato. Nei pochi casi in cui ci è stato possibile operare un raffronto con studi del passato emerge anzi, contrariamente alle attese, un, seppur lieve, miglioramento. È il caso, ad esempio, dell’ortografia, studiata da Emanuele Miola. Ma non è questa la sede per entrare nel merito.
Torniamo, piuttosto, alla questione di partenza.
Per mappare sistematicamente le competenze di scrittura formale all’università abbiamo chiesto a 2.137 studenti e studentesse, che hanno partecipato volontariamente alla rilevazione, di redigere un testo formale secondo una traccia comune e di compilare, poi, un ricco questionario sociobiografico di quasi 60 quesiti. Questo ci ha permesso sia di analizzare la loro scrittura, sia di individuare correlazioni sistematiche tra specificità della scrittura stessa e parametri di tipo, appunto, sociobiografico, legati, cioè, alla storia personale degli e delle scriventi. In termini generali, ciò che emerge dall’analisi quantitativa e qualitativa dei testi è qualche devianza sistematica rispetto al risultato atteso nelle attività di pianificazione e costruzione dei testi. Questo non significa, di per sé, che i testi siano sbagliati. Piuttosto che sono, spesso, diversi da come ce li aspettavamo. In questo può sicuramente giocare un ruolo la grande consuetudine che i e le giovani oggi hanno con tipologie testuali molto particolari, come quelle delle chat, per intenderci, e la tendenza che talora emerge a trasferire costrutti tipici di queste tipologie di testi a testi che, invece, richiederebbero altre scelte.
Ora, nel questionario che i e le partecipanti al progetto hanno compilato c’era anche una domanda sullo studio di lingue antiche. E proprio i testi redatti da chi ha risposto sì a questa domanda hanno riservato qualche sorpresa. Infatti, i testi prodotti da studenti e studentesse che hanno studiato almeno una lingua antica (quindi latino o greco) hanno sistematicamente e in modo statisticamente significativo una ricchezza lessicale maggiore e una miglior struttura rispetto a quelli scritti da chi non ha mai studiato una lingua antica. Insomma, possiamo certamente affermare che lo studio del latino e/o del greco ha determinato un beneficio positivo diretto sulle capacità di scrittura di studenti e studentesse. Tutti/e hanno studiato la grammatica dell’italiano, in vari cicli di istruzione. Ma non tutti si sono cimentati nello studio di una lingua antica. Chi lo ha fatto dimostra di avere migliori performance anche nella propria lingua.*
Un altro parametro mostra, rispetto a ciò, risultati interessanti ed è quello relativo alle abitudini di lettura. Si tende spesso a pensare che leggere molto aiuti a scrivere meglio. Ebbene, chi, nel nostro campione, ha dichiarato di leggere all’anno più di dieci libri, oltre a quelli inseriti nei programmi d’esame, ha prodotto, in modo statisticamente significativo, testi con una maggior ricchezza lessicale, ma non meglio costruiti rispetto a chi legge meno o nulla. La consuetudine alla lettura, dunque, parrebbe avete un effetto benefico più limitato e indiretto sulle capacità di scrittura. È, insomma, una condizione necessaria, ma di certo non sufficiente.
Possiamo dunque considerare lo studio di una lingua antica come automaticamente benefico rispetto alle capacità di scrittura e affermare, dunque, che chi studierà latino avrà una miglior competenza anche nella propria lingua nativa? Nonostante i dati appena mostrati, rispondere sì sarebbe avventato, per varie ragioni. La prima, e più ovvia, è che molto dipende da chi e da come viene insegnato il latino (su questo torneremo nella conclusione di questo articolo). La seconda è che il latino, contrariamente a quanto ha affermato il Ministro, non è “la palestra della logica e della ragione”. L’idea che esistano lingue più logiche o addirittura geniali è un altro, ennesimo luogo comune che Diego Pescarini ha già ampiamente e brillantemente smentito qui. Il latino non è diverso da tutte le altre lingue attualmente parlate o estinte, perché ogni lingua obbedisce alle medesime necessità e risolve, seppur in modo diverso, i medesimi problemi posti dalla comunicazione. Insomma, ogni lingua è geniale (a modo suo) e ogni lingua è o può essere palestra per la mente. In questo senso studiare le lingue è senza dubbio un ingrediente fondamentale in ogni percorso formativo e le stesse operazioni che applichiamo al latino (a partire dalla traduzione delle cosiddette versioni e dalle riflessioni che essa innesca) possono essere applicate a ogni altra lingua, viva o morta che sia. In questo ambito, il passaggio da un codice all’altro aiuta sempre a sviluppare competenze metalinguistiche e a riflettere anche sulla propria lingua nativi, sui suoi meccanismi e, questa volta sì, sulla logica di fondo. E queste abilità hanno una ricaduta non solo sulla competenza nella nostra lingua madre, ma anche, in prospettiva più ampia, sulle capacità di pensiero e ragionamento (insomma, una soft skill ideale!). L’importanza, a scopo educativo, della capacità di passare da un codice all’altro e di riflettere sulla capacità delle lingue di autodefinirsi, autodichiararsi e analizzarsi sono già tra gli elementi cardine delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, che proprio quest’anno festeggiano i 50 anni (cfr. in particolare tesi VIII) e che mostrano, ancora una volta, le loro grandi (e spesso, ahinoi, inesplorate) potenzialità applicative.
Come si spiega, dunque, questa grande attenzione rivolta al latino, come possibile “palestra per la mente”? Limitandoci al piano linguistico, la prima ragione è ovvia: il latino è più o meno direttamente legato alla quasi totalità delle lingue europee ed è, oggettivamente, una componente cardine della nostra cultura. Ma se vogliamo adottare, di nuovo, una prospettiva ‘laica’ ed evitare di addentrarci in terreni pericolosi legati a identità e radici, potremmo individuare un possibile vantaggio del latino (e del greco), rispetto alle lingue vive, nel fatto che la totalità dei testi su cui viene insegnato il latino a scuola è di tipo letterario e, quindi, nel fatto che la traduzione dal latino e le riflessioni linguistiche e metalinguistiche che essa innesca non hanno ricadute pragmatiche o comunicative immediate. In altri termini, studiare il latino è diverso da studiare inglese, francese, cinese, ecc. perché non si studia il latino per viaggiare, per ascoltare canzoni o, perché no, per innamorarsi. Non si studia il latino per secondi fini, insomma. Ed è per questo che a volte lo studio delle lingue antiche viene considerato inutile: perché non ha, apparentemente, ricadute pratiche. Eppure, è proprio l’assenza di implicazioni comunicative o situazionali che può rendere più mirata e consapevole la riflessione metalinguistica che il latino (al pari del greco) può suscitare. Diciamo che, in questo caso, possiamo cogliere l’essenza della riflessione metalinguistica, perché non ci sono, appunto, fattori (o motivazioni) che distolgano l’attenzione da essa. Ciò, in effetti, può forse amplificare l’effetto benefico sulla lingua madre, di cui si è detto sopra. Ovviamente questo è possibile a condizione che il latino venga insegnato per quello che è, cioè rispettandone la natura; e non – se mi è concesso – scimmiottando le lingue vive, facendolo declamare a studenti e studentesse con la toga indosso, inventandosi pronunce senza alcun fondamento storico.
A pensarci bene, in fondo, il latino non è una lingua morta: è una lingua che si è trasformata. E non gli si rende merito se lo si usa, strumentalmente e suo malgrado, come campione di una grammatica trionfo della regola e come bandiera di un’educazione linguistica (ma non solo) un po’ all’antica che qualcuno, a torto, rimpiange.
PS Della grammatica come cultura della regola ci occuperemo un’altra volta 😉
*Ci si può chiedere se lo stesso effetto possa essere innescato dallo studio delle lingue straniere. È possibile, anzi probabile che sia così, ma al momento i nostri dati non ci permettono di dare risposte nette come quelle che, invece, riguardano le lingue antiche. Nel questionario del progetto che ho citato c’erano ovviamente anche domande relative allo studio di altre lingue ‘vive’. Ma lo studio di almeno una lingua straniera è di fatto obbligatorio ormai in tutti i percorsi formativi e, dunque, non è possibile creare due sottocampioni nettamente distinti, uno composto da studenti e studentesse che hanno studiato una lingua straniera e uno composto da chi non l’ha studiata: questo secondo gruppo sarebbe statisticamente irrilevante. Per verificare l’impatto dello studio di lingue moderne sulla competenza nella lingua nativa sarebbe necessaria una raccolta dati più granulare e mirata.
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