Livio Gaeta
Università di Torino
Edward Sapir (1884-1939) è stato considerato nel corso del Novecento una bandiera da sventolare sul podio del particolarismo e dell’alterità o viceversa da bruciare su quello dell’universalismo e dell’unicità. Campione del relativismo, del genio della lingua, del drift, dei limiti dell’interpretazione (suo il celebre motto che compare in Language, p. 38: “Tutte le grammatiche hanno delle falle”). Odiato o amato per questo. Si potrebbe quasi dire che “essere sapiriani” sia uno stato d’animo, una maniera di vedere il mondo. Che consiste nell’essere un cultore della minorità, della differenza, della più squisita autenticità dell’essere umano nella sua dimensione pienamente antropologica. Paolo Ramat, nella presentazione alla nuova edizione di Language del 2007, ha scritto che oggi sarebbe considerato un etnolinguista. Certamente, il peso di Sapir nella scienza linguistica novecentesca sarebbe stato senz’altro ancora maggiore se la morte prematura non avesse purtroppo segnato le sorti dei rapporti tra la linguistica e altre scienze umane come l’antropologia e la psicologia o scienza cognitiva negli Stati Uniti. Tutto questo proprio mentre l’Europa, nell’apocalisse del secondo conflitto mondiale, stava per cedere agli Stati Uniti la supremazia nella scienza e nella cultura, anche grazie alla presenza di rifugiati del calibro di Roman Jakobson e Claude Lévi-Strauss. Possiamo purtroppo solo fantasticare su cosa sarebbero stati in grado di fare assieme al pioniere dell’etnolinguistica.
Vita di un etnolinguista
Edward Sapir nasce in Pomerania da una povera famiglia di ebrei, emigrati poco dopo la sua nascita a New York alla fine dell’Ottocento. Enfant prodige, si laurea con borsa di studio alla Columbia University in germanistica, con una tesi su Herder e l’origine delle lingue. Ma a segnare la sua vita è l’incontro con Franz Boas, il grande padre degli studi antropologici e linguistici sui nativi americani, che innanzitutto sconvolge le sue certezze di giovane indoeuropeista con esempi tratti dalle lingue amerindiane e poi lo manda a studiarle direttamente sul campo in California con il suo allievo Alfred Kroeber e poi ad Ottawa a capo del dipartimento di antropologia del Geological Survey of Canada. Nel frattempo consegue il dottorato alla Pennsylvania University con una tesi sul Takelma. Sono impressionanti il rigore metodologico oltre che l’intensità del suo lavoro. Seppur in assenza di un consistente lavoro monografico unitario, raccoglie nei venti anni in cui si dedica alla ricerca sul campo di Takelma, Nootka, Navajo, e Yana, per citarne solo alcune (pare che abbia raccolto materiali sostanziali su ben 39 lingue diverse), una quantità di materiali inestimabili che sono la fortunata testimonianza di una varietà linguistica che si trova ormai in un inesorabile processo di decomposizione. Oltre all’attività di linguista e antropologo militante, coltiva musica, letteratura, pubblica regolarmente poesie. Dopo il ventennio trascorso tra Pennsylvania, California e Canada a raccogliere la straordinaria testimonianza che ci ha lasciato in eredità, Sapir viene chiamato prima a Chicago nel 1925 e poi nel pantheon delle università americane, a Yale nel 1931, dove dirige il dipartimento di antropologia, in cui oltre che di linguistica si occupa di antropologia e psicologia, delineando un programma di studio e ricerca teso a indagare l’impatto della cultura sulla personalità. In questi anni raggiunge il successo accademico, viene eletto nell’American Academy of Arts and Sciences e nell’American Philosophical Society, è circondato da allievi del calibro di Morris Swadesh, Benjamin Lee Whorf, Mary Haas, Charles Hockett e altri, ma al culmine del successo problemi di cuore lo costringono a ritirarsi da Yale: muore a 55 anni proprio mentre in Europa sta per scoppiare il conflitto mondiale.
Language, un secolo dopo
Verso la fine del ventennio in cui si è dedicato intensamente alla ricerca sul campo, nel 1921, Sapir pubblica un volume monografico dedicato ai fondamenti della giovane disciplina linguistica con l’intenzione di divulgarne principi e metodi presso il grande pubblico. Si tenga presente che l’omonimo volume di Leonard Bloomfield, opera fondativa per la linguistica nordamericana, apparirà solo una decina di anni più tardi, e che il volume postumo del Cours di Ferdinand de Saussure, apparso nel 1916 in francese (e tradotto in inglese solo nel Secondo Dopoguerra), non viene affatto citato da Sapir, come non manca di osservare proprio Bloomfield nella recensione a Language apparsa in The Classical Weekly nel 1922. Per il lettore italiano è notevole il fatto che l’assenza di Saussure sia invece accompagnata dal riferimento esplicito a Benedetto Croce e alla sua visione della linguistica come “scienza dell’espressione”:
“Tra gli scrittori contemporanei che esercitano un’influenza sul pensiero più avanzato Croce è uno dei pochi che sia pervenuto alla comprensione del fondamentale valore della lingua. Sono profondamente in debito verso di lui, per quel che riguarda questa intuizione” (p. xxxiii).
Tuttavia, il riferimento a Croce va letto non tanto rispetto alla nota diffidenza di don Benedetto nei confronti della linguistica come scienza di una “lingua di linguisti” e pertanto mera “finzione concettuale”, per cui ha fatto scuola in Italia per decenni (si veda Nencioni 1985, p. 212), quanto piuttosto all’espressione linguistica come peculiare manifestazione dell’individuo, unica e particolare di una cultura storicamente determinata. In altre parole, Croce viene utilizzato da Sapir come campione del relativismo linguistico per cui troviamo in Language citazioni del tipo: “Croce ha dunque perfettamente ragione quando dice che un’opera d’arte letteraria non potrà mai essere tradotta” (p. 219). Questa asimmetria è declinata da Sapir nei termini di una squisita preminenza della dimensione individuale dell’individuo, in cui la lingua svolge un ruolo centrale nel qualificarne la peculiarità umana. In quest’ottica, rispetto all’annoso dibattito filosofico sul rapporto tra lingua e pensiero, Sapir rivendica una posizione di netta centralità della lingua su ipotetiche categorie universali del pensiero:
“Quanto a chi scrive, la sua profonda convinzione a questo riguardo è che l’impressione che molti hanno di pensare, o addirittura ragionare, senza la lingua, sia un’illusione” (p. 15).
Dalla centralità della lingua come peculiarità unica e assoluta degli esseri umani coniugata con la cultura come espressione più compiuta della loro dimensione sociale discende gran parte dei motivi ricorrenti in Language, e in particolare l’indissolubilità di lingua e cultura, la centralità della dimensione tipologica e il concetto di drift come ponte tra metodo comparativo di provenienza neo-grammatica e prospettive tipologiche e cognitive. Su questi aspetti ci soffermeremo
Per approfondire
Bloomfield, Leonard. 1921. Review of Language. In: The Classical Weekly, 15.142-43 (13 March 1922) [rist. in Koerner, E. F. Konrad (ed.). 1984. Edward Sapir, appraisals of his life and work, 47–50, Amsterdam e Philadelphia: John Benjamins].
Nencioni, Giovanni. 1985. Croce e la linguistica. In Tessitore, Fulvio (ed.), L’eredità di Croce, 199–216, Napoli: Guida.
Sapir, Edward. 1921. Language. An Introduction to the Study of Speech. New York: Harcourt & Brace. [Trad. it. da cui si cita: Sapir, Edward. 2007. Il Linguaggio. Introduzione alla linguistica. Nuova edizione. Presentazione di Paolo Ramat. Torino: Einaudi].
Sapir, Edward. 1949. Selected Writings in Language, Culture, and Personality, edited by David G. Mandelbaum. The Regents of the University of California. [Trad. it. da cui si cita: Sapir, Edward. 1972. Cultura, linguaggio e personalità. Linguistica e antropologia. Nota introduttiva di Giulio C. Lepschy. Torino: Einaudi].
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