Andrea Sansò
Università degli Studi dell’Insubria
Quando in una frase italiana usiamo un verbo, siamo obbligati a esprimere il tempo verbale e il modo. Dobbiamo, cioè, collocare l’azione o l’evento rispetto al momento in cui parliamo (presente, passato o futuro), e nel regno del reale o del possibile (sai che ti amo; vorrei che tu mi amassi). ‘Siamo obbligati’ significa che non possiamo non farlo: tutte le forme del paradigma del verbo italiano contengono una specificazione morfologica di tempo e di modo. Possiamo dire che tempo e modo sono due ‘categorie’ del verbo obbligatorie in italiano. Passato, presente e futuro sono i valori che può assumere la categoria del tempo, così come indicativo, congiuntivo, imperativo e condizionale sono i valori che può assumere la categoria del modo. Le cose, però, non funzionano così in tutte le lingue. Se ci limitiamo alla categoria del tempo, ad esempio, può capitare di imbatterci in lingue in cui la collocazione dell’evento sull’asse temporale è possibile, ma solo con mezzi non grammaticali: in altre parole, la forma del verbo rimane la stessa, e se proprio si vuole specificare quando si svolge l’azione si utilizzano elementi lessicali (ad esempio avverbi come ‘ieri’, ‘oggi’, ‘adesso’). In indonesiano, nella frase dia pergi ke kantor, la forma del verbo (pergi) non contiene specificazioni grammaticali di tempo: può significare sia ‘va (in ufficio)’ che ‘è andato/andò (in ufficio)’; la collocazione temporale dell’evento può essere ricostruita solo in presenza, nel contesto, di elementi lessicali che indirizzano l’interpretazione verso un’azione presente o passata (ad esempio tadi pagi, ‘stamattina’, comporta un’interpretazione dell’azione come passata). Esistono poi lingue in cui la categoria verbale del tempo ha valori diversi da quelli dell’italiano: in yagaria, una lingua della famiglia denominata trans-Nuova-Guinea, il più ampio dei raggruppamenti genealogici delle lingue parlate a Papua Nuova Guinea, la categoria del tempo ha due valori, futuro e non-futuro. La forma di non-futuro può essere utilizzata per indicare eventi sia del presente che del passato. In yakkha, una lingua della sottofamiglia kiranti della famiglia sino-tibetana, il morfema -meʔ compare, dopo la radice verbale, quando il verbo indica un’azione che si svolgerà nel futuro (verrà lunedì) o quando si riferisce a un’azione presente (costruiscono la terrazza): il morfema si configura pertanto come una forma di ‘non-passato’. Anche in italiano possiamo usare la stessa forma per indicare un’azione presente e un’azione futura: ‘eccolo che arriva/arriva lunedì prossimo’; il verbo italiano ha però una forma di futuro e l’uso del presente per il futuro è solo una possibilità tra le altre.
Accanto al tempo e al modo, un’altra categoria del verbo è l’aspetto, che dà indicazioni sulla strutturazione interna di una determinata situazione. Un evento come ‘mangiare’ può essere visto nella sua interezza, come evento concluso (Marco ha già mangiato), o nel suo svolgersi (Marco stava mangiando quando è squillato il telefono). Si parla, nel primo caso, di aspetto perfettivo e nel secondo di aspetto imperfettivo. Ci sono lingue, nel mondo, in cui la categoria dell’aspetto è più importante di quella del tempo. In igbo, una lingua della famiglia Niger-Congo parlata in Nigeria, il verbo non esprime la categoria del tempo, ma solo quella dell’aspetto: un verbo preceduto da nà è imperfettivo e può essere interpretato, sulla base del contesto, con riferimento al presente, al passato o al futuro (sto lavorando, stavo lavorando, starò lavorando).
Quando si confrontano lingue diverse alla ricerca di tendenze universali o per definire i limiti della variazione possibile nella struttura grammaticale, non è raro imbattersi in categorie grammaticali che non sono presenti nel verbo italiano o in quello delle principali lingue europee. Una di queste è la categoria dell’evidenzialità. Esistono lingue in cui è obbligatorio esprimere, sul verbo, la sorgente dell’informazione: in qiang, una lingua sino-tibetana, c’è un sistema di tre suffissi verbali che codificano, rispettivamente, un’informazione ottenuta attraverso l’esperienza diretta (il suffisso -u/-wu), un’informazione frutto di inferenza o congettura (il suffisso -k), e un’informazione di seconda mano, che ci è stata riferita da qualcun altro (il suffisso -i), come mostrano i tre esempi seguenti [le glosse VIS, INFER e HS si riferiscono, rispettivamente, al suffisso evidenziale visuale, a quello inferenziale e a quello della fonte riportata, hearsay]:
Anche il nome e il pronome hanno le loro categorie, e anche in questo caso non tutte le lingue si comportano allo stesso modo. Prendiamo la categoria del numero. Se in italiano la maggior parte dei nomi ha una forma di singolare e una di plurale, esistono lingue in cui soltanto i nomi con referenti animati possono formare il plurale: in kannada, una lingua della famiglia dravidica, le marche di numero sono obbligatorie solo con i nomi animati, e opzionali con i nomi inanimati. Singolare e plurale, inoltre, non sono gli unici valori possibili. In alcune lingue esistono infatti il duale, riservato a coppie di referenti, e il triale, quando i referenti del nome sono tre: un caso è il marrithiyel, una lingua australiana della famiglia daly, che presenta i pronomi yigin (io), nganggi (noi due), ngangginimbini (noi tre) e ngangginim (noi, più di tre). Altre lingue hanno, oltre al duale e al plurale, anche un paucale, forma utilizzata quando i referenti sono più di due, ma non tanti. In bayso, una lingua afro-asiatica dell’Etiopia, luban-jool (leone-PL) hudureene significa ‘i leoni hanno dormito’, mentre luban-jaa (leone-PAUC) hudure significa ‘alcuni leoni (da tre a sei) hanno dormito’.
Altre categorie del nome sono il genere e il caso. Le lingue europee hanno sistemi di genere ridotti, con due o al massimo tre valori possibili (maschile, femminile e neutro). Di contro, sistemi più complessi si possono trovare in lingue come il dyirbal (della famiglia pama-nyungan, parlata in Australia), con quattro generi (e regole di assegnazione del genere ai nomi piuttosto complesse), o il kwarshi, una lingua del Daghestan, che ha, oltre a due generi che sono sovrapponibili ai nostri maschile e femminile, un terzo e un quarto genere in cui ricadono nomi che indicano sia referenti animati (ma non umani) che inanimati e un quinto genere che comprende i nomi dei cuccioli di animali.
La categoria del caso, familiare a chi abbia studiato le lingue indoeuropee antiche (o anche solo il tedesco o il russo), esprime il ruolo del nome rispetto alla predicazione verbale (soggetto, oggetto, oggetto indiretto, possessore, ecc.). I sei casi del latino sembrano tanti rispetto a lingue come il tedesco, che hanno solo quattro casi, ma sono pochi se confrontati con i ricchi sistemi casuali di lingue come le ugro-finniche, in cui ci sono numerosi casi ‘spaziali’ (che codificano, cioè, la relazione spaziale tra il referente e l’azione verbale). L’ungherese, ad esempio, ha un caso inessivo (che codifica lo stato in luogo, se il luogo può configurarsi come uno spazio chiuso: ház-ban, ‘in casa’), un caso adessivo (che indica lo stato in prossimità di un luogo: ház-nál, ‘vicino a casa’), un caso superessivo (che indica una relazione statica sull’asse verticale: ház-on, ‘sulla casa’), un caso illativo (che indica il moto verso un luogo chiuso: ház-ba, ‘verso l’interno della casa’), un caso allativo (moto verso un luogo, che non implica ingresso nel luogo: ház-hoz, ‘verso la casa’), un caso sublativo (moto verso la superficie superiore di un luogo, con contatto: ház-ra, ‘sulla casa’), un caso elativo (moto dall’interno di un luogo: ház-ból, ‘dall’interno della casa’), un caso ablativo (moto dalle vicinanze di un luogo: ház-tól, ‘da casa’) e, infine, un caso delativo (moto dalla superficie superiore di un luogo: ház-ról, ‘da sopra la casa’).
Il termine “categoria grammaticale” è utilizzato in linguistica per riferirsi a quegli insiemi di opzioni morfosintattiche (o che hanno un riflesso morfosintattico, ad esempio nei fenomeni di accordo) che caratterizzano le parti del discorso variabili, e cioè primariamente nome e verbo (ma anche pronome e aggettivo). Come risulta chiaro dalla breve rassegna precedente, la varietà di realizzazioni e valori delle diverse categorie grammaticali nelle lingue del mondo e l’interazione tra categorie diverse sono sorprendenti. Altrettanto vario è l’insieme di processi diacronici che portano alla nascita e al rinnovamento delle categorie grammaticali e che vanno sotto l’etichetta generale di ‘grammaticalizzazione’. Capita spesso, infatti, che una lingua non possieda una categoria ‘grammaticalizzata’: ciò significa che una data categoria non ha riflessi morfosintattici in quella lingua (si pensi al caso, descritto sopra, delle lingue che non hanno la categoria del tempo). Con l’andar del tempo, la categoria mancante può nascere attraverso processi in cui elementi lessicali vengono reinterpretati come marche grammaticali. Così, ad esempio, il futuro latino della prima e seconda coniugazione (cantabo, monebo) sarebbe nato dall’unione di una forma non finita del verbo e da una forma del verbo ausiliare *bhū-, ‘essere’: per l’indoeuropeo non è infatti possibile ricostruire una forma di futuro, e pertanto è ipotizzabile che il futuro latino in -bo sia nato nella fase preistorica del latino (e delle lingue ad esso più strettamente imparentate, come il falisco, in cui abbiamo forme come carefo per carebo) attraverso la fusione in un’unica parola di quella che in origine era verosimilmente una perifrasi verbale.
Per approfondire
Grandi, Nicola & Mauri, Caterina. 2022. La tipologia linguistica. Unità e diversità nelle lingue del mondo. Roma: Carocci.
Inglese, Guglielmo & Luraghi, Silvia. 2023. Le categorie grammaticali. Roma: Carocci.
1 Commento
Antonella 22 Gennaio, 2024
Bellissima sintesi …! avevo avuto la percezione che ci fossero “strutture” linguistiche molto differenti, ma non avevo mai approfondito. Ora lo farò.
Lascia un commento