Riccardo Ginevra
Università Cattolica del Sacro Cuore
Nella prima parte di questo post ho spiegato cosa vuol dire il termine “protoindoeuropeo” (la lingua preistorica ricostruita come antenata comune di tutte le lingue indoeuropee) e in che modo archeologia e genetica possono aiutarci a supportare o confutare le nostre teorie su chi con tutta probabilità parlava questa lingua preistorica (comunità di allevatori nomadi della cultura archeologica Yamnaya, che abitavano la steppa pontica tra Ucraina e Russia più di cinquemila anni fa) e su come le diverse lingue indoeuropee si siano diffuse in Europa e Asia (tramite una serie di movimenti di persone che hanno lasciato chiare tracce individuabili da linguistica, archeologia e genetica). Se non avete ancora letto la prima parte, potete farlo cliccando qui.
Gli ultimi dieci anni hanno visto fiorire gli studi interdisciplinari su questi temi, che ci hanno portato a comprendere meglio la diffusione di alcuni rami delle lingue indoeuropee: ad esempio, abbiamo capito meglio come le cosiddette “lingue indoiraniche” (che includono sia lingue antiche come sanscrito e persiano antico, che moderne come hindi e farsi) siano giunte dalla steppa fino alle zone dell’Asia occidentale, centrale e meridionale dove si parlano tuttora. Resta tuttavia almeno un altro enigma importante da risolvere: come mai queste tracce genetiche provenienti dalle steppe siano del tutto assenti nel DNA delle persone che parlavano le cosiddette “lingue anatoliche” (oggi estinte) nell’area dell’odierna Turchia. Faceva parte del ramo anatolico, ad esempio, la prima lingua indoeuropea ad essere testimoniata da testi scritti (nelle tavolette cuneiformi dei mercanti assiri, intorno al 2000 a.C.): l’ittito, la lingua ufficiale del Regno degli Ittiti (citati anche nella Bibbia), i cui abitanti avevano però corredi genetici che non sembrano mostrare alcuna traccia di contatti preistorici con persone della cultura Yamnaya.
Questa discrepanza tra linguistica e genetica non è di per sé così problematica: le lingue si possono diffondere tra comunità diverse anche senza che avvenga un corrispondente scambio di geni (pensate alla diffusione dell’inglese oggi, difficilmente correlabile a flussi migratori dal Regno Unito al resto del mondo). Per qualsiasi indoeuropeista è però difficile non collegare subito questo dato con il modo in cui ricostruiamo il primissimo nodo dell’“albero filogenetico” delle lingue indoeuropee: è chiaro infatti che le lingue anatoliche, pur essendo decisamente parte della famiglia linguistica indoeuropea (ad esempio ‘chi’ in ittito si dice kuis e la radice del verbo ‘essere’ è es-, come in latino quis ed es-se), sono però anche molto diverse da tutte le altre lingue indoeuropee antiche (che ad esempio avevano tre generi grammaticali – maschile-femminile-neutro – mentre le lingue anatoliche hanno solo due generi grammaticali: animato-inanimato). Per questo motivo oggi si ritiene comunemente che, dopo l’iniziale stadio linguistico a cui vanno ricondotte tutte le lingue indoeuropee, quello che chiamiamo appunto protoindoeuropeo, ci sia stata una primissima ramificazione in due varietà distinte, una delle quali, il cosiddetto “protoanatolico”, divenne l’antenata comune (“proto-”) di tutte le lingue anatoliche, mentre l’altra varietà si sviluppò nell’antenata comune del “nucleo” di tutte le altre lingue indoeuropee (come latino, greco, sanscrito, inglese), che chiamiamo appunto “protoindoeuropeo nucleare”. C’è anche chi invece preferisce chiamare quest’ultimo semplicemente “protoindoeuropeo”, e rinominare piuttosto il nodo superiore come “protoindoanatolico”, in quanto antenato comune delle lingue anatoliche e delle altre lingue indoeuropee, ma al momento questa proposta non sembra aver avuto grande fortuna (richiederebbe un cambio radicale – e sostanzialmente immotivato – della nomenclatura da “lingue indoeuropee” a “lingue indoanatoliche”).
È possibile che l’apparente mancanza di corrispondenze genetiche tra popolazioni della steppa pontica e dell’Anatolia antica sia in qualche modo da collegare proprio a questa primissima ramificazione del protoindoeuropeo in protoindoeuropeo nucleare da una parte e protoanatolico dall’altra? A questo dilemma ha cercato di dare una risposta uno studio pubblicato il 5 febbraio scorso sulla rivista Nature, diviso in due articoli per ragioni politiche (legate alla guerra in Ucraina), firmati da squadre internazionali di ricercatrici e ricercatori che fanno capo al già citato genetista David Reich di Harvard, il cui laboratorio è sempre stato in prima linea nella collaborazione tra linguistica, archeologia e genetica. Ampliando notevolmente la quantità di dati disponibili (ad esempio quadruplicando il numero di genomi di persone Yamnaya studiati finora, da 75 a 286), è stato possibile individuare delle corrispondenze tra i genomi delle persone che abitavano la steppa pontica cinquemila anni fa e quelli degli abitanti dell’Anatolia dell’Età del Bronzo (tra il 2750 e il 1500 a.C.), corrispondenze che permettono di connettere entrambe queste popolazioni a una popolazione preistorica più antica, che abitava nell’area tra le montagne del Caucaso e la regione del Basso Volga nell’odierna Russia, in inglese abbreviata come “CLV” (“Caucasus-Lower-Volga”; area 1 in questa mappa).
Più precisamente, secondo il team di Reich, i dati genetici permettono di ipotizzare che intorno a 6500 anni fa da questa area siano iniziate a poca distanza di tempo due grandi migrazioni. Una migrazione verso ovest portò delle persone della CLV nella steppa tra le odierne Ucraina e Russia, dove questi migranti si mescolarono con i locali (cacciatori e raccoglitori) e diedero origine alla cultura archeologica che chiamiamo Serednyi Stih (in ucraino) o Srednij Stog (in russo), da cui poi si sviluppò la già citata cultura Yamnaya, le cui persone infatti avevano 4/5 di materiale genetico riconducibile alla popolazione CLV. Più o meno nello stesso periodo, un’altra migrazione, questa volta verso sud, portò persone della CLV a incontrare popolazioni della zona del Caucaso dai corredi genetici simili a quelli riscontrabili in Mesopotamia e mescolarsi con loro, dando vita a nuove comunità che raggiunsero da oriente l’Anatolia centrale, dove infatti nell’Età del Bronzo le persone presentavano corredi genetici riconducibili per almeno un decimo a quelli delle persone della CLV.
Come forse avrete immaginato, il team di Reich ha quindi ipotizzato che tra le persone che più di 6500 anni fa vivevano tra il Caucaso e il Basso Volga (CLV) si parlasse l’antenato di tutte le lingue indoeuropee, comprese quelle anatoliche: il protoindoeuropeo (gli autori dello studio lo chiamano in realtà “protoindoanatolico”, ma, come abbiamo detto, si tratta di una terminologia poco utilizzata in indoeuropeistica). La primissima ramificazione delle lingue indoeuropee di cui abbiamo parlato sopra, quella tra protoanatolico e protoindoeuropeo nucleare, sarebbe quindi avvenuta intorno a 6500 anni fa, quando gruppi di persone della CLV cominciarono a migrare verso sud e verso ovest. Le persone che migrarono verso sud attraverso il Caucaso portarono con sé una varietà dialettale del protoindoeuropeo che col tempo si sviluppò nell’antenato comune di tutte le lingue anatoliche, il protoanatolico, mentre quelle che migrarono verso ovest nella steppa tra Ucraina e Russia portarono con sé una varietà dialettale del protoindoeuropeo che si sviluppò poi nell’antenato comune di tutte le altre lingue indoeuropee, il protoindoeuropeo nucleare (che gli autori dello studio chiamano semplicemente “protoindoeuropeo”), parlato dalle persone della cultura Yamnaya. Poi, come abbiamo già visto, intorno a cinquemila anni fa iniziò la serie di migrazioni di persone Yamnaya dalla steppa pontica verso l’Europa e l’Asia che portò il protoindoeuropeo nucleare a diversificarsi nei vari rami delle lingue indoeuropee nucleari, compreso il ramo italico a cui apparteneva il latino (da cui poi si svilupparono le lingue romanze come l’italiano).
Si tratta di una ricostruzione corretta? È presto per dirlo. Gli studi di genetica vanno a un passo molto rapido, e nuovi studi potrebbero rendere noti nuovi dati che potrebbero a loro volta portare a nuove teorie. Di certo questa teoria ha il vantaggio di fornire una perfetta controparte sul piano delle migrazioni preistoriche all’unico nodo ricostruito dell’albero delle lingue indoeuropee su cui sostanzialmente l’intera indoeuropeistica è d’accordo: la primissima ramificazione del protoindoeuropeo in protoanatolico da una parte e nell’antenato di tutte le altre lingue indoeuropee dall’altra. Inoltre, questa proposta è cronologicamente plausibile dal punto di vista archeologico, a differenza di una “teoria ibrida” avanzata di recente sempre su Nature, che propone di datare il protoindoeuropeo a più di ottomila anni fa: come è stato notato ben presto, si tratta di una ricostruzione fortemente anacronistica, dato che le primissime tracce archeologiche di molte cose per cui si possono ricostruire parole protoindoeuropee (come la ‘ruota’, *kʷékʷlos) sono di parecchio successive a questa data (parliamo di migliaia di anni).
In breve, sebbene non sia da escludere che studi futuri possano portare a nuove e migliori ricostruzioni, per il momento la proposta del team di Reich sembra essere supportata da una mole di dati genetici, credibile dal punto di vista archeologico e, soprattutto, compatibile con idee che da decenni hanno consenso generale nell’indoeuropeistica. Una critica che mi sembra invece fortemente necessaria è quella a una terminologia che si trova già nel titolo del principale dei due articoli in cui è spezzato lo studio: “The genetic origin of the Indo-Europeans”. Come notato anche in fase di peer review, il sostantivo al plurale “Indo-Europeans”, “indoeuropei”, nel titolo è usato come un etnonimo, come se si stesse parlando delle origini di una qualche omogenea “nazione indoeuropea”, quando invece sarebbe più corretto parlare in maniera neutra di “parlanti di protoindoeuropeo”. A questa critica il team di ricerca ha risposto scrivendo che non era questa la loro intenzione, e che secondo loro “gli indoeuropei” sarebbe una scorciatoia appropriata (“an appropriate short name”) per riferirsi ai parlanti di protoindoeuropeo: non sono d’accordo.
Neanche al di fuori di un contesto scientifico penseremmo mai di riferirci ai parlanti di inglese come “gli inglesi” o ai parlanti di spagnolo come “gli spagnoli”: è semplicemente scontato che due persone che parlano inglese o spagnolo possano benissimo appartenere a entità sociopolitiche (comunità, etnie, nazioni) diverse, e nel passato ciò era forse anche più frequente di adesso (prima della comparsa degli stati nazione). L’utilizzo di “indoeuropei” o – peggio ancora – “protoindoeuropei” come sostantivo al plurale richiama immediatamente a un orecchio moderno un’idea di “nazione indoeuropea”, che non solo è falsa per il presente (le lingue indoeuropee sono parlate da persone di tantissime nazioni diverse) e anacronistica per la preistoria (non abbiamo alcun motivo di credere che chi parlava protoindoeuropeo appartenesse a un’unica entità sociopolitica), ma è anche pericolosa, dato che nel titolo si parla di “genetic origin”, cioè “origine genetica”, come se le persone che parlavano protoindoeuropeo allora o (peggio ancora) quelle che parlano lingue indoeuropee oggi debbano anche necessariamente condividere un’unica eredità biologica (una confusione tra biologia e cultura pericolosamente affine all’ormai screditato concetto di “razza”). Come abbiamo già detto, la genetica può aiutarci a individuare movimenti di persone da un luogo all’altro che logicamente potrebbero aver fatto diffondere, insieme ai loro geni, anche le lingue parlate da queste persone, ma non possiamo e non dobbiamo in alcun modo invertire questa relazione logica e dare per scontato che chi parlasse una certa lingua avesse un certo DNA o viceversa.
Sia chiaro: dalla lettura di questo articolo, così come di altri studi dello stesso team di ricerca, è evidente che chi lo ha scritto non condivide questo genere di idee del tutto obsolete nella scienza contemporanea, e che quindi qui si sia semplicemente preferito un titolo accattivante ad una terminologia precisa. La terminologia è importante, però, anche perché spesso chi apprende e diffonde le notizie scientifiche sui giornali o nei social non legge l’intero articolo, ma si ferma al titolo o all’abstract, e non ha quindi modo di farsi un’idea chiara di che cosa si sta parlando. Per evitare malintesi è quindi preferibile utilizzare i termini “protoindoeuropeo” e “indoeuropeo” sempre e soltanto come segue:
- il sostantivo “protoindoeuropeo” va usato unicamente per riferirsi all’antenato ricostruito (“proto-”) di tutte le lingue indoeuropee, mentre il sostantivo “indoeuropeo” va utilizzato unicamente come sinonimo di “insieme delle lingue indoeuropee”, cioè nel senso di “famiglia linguistica indoeuropea” (come “germanico” o “romanzo”, ad esempio studiare “la flessione verbale in indoeuropeo” significa studiare come si flettono i verbi nelle lingue indoeuropee);
- l’aggettivo “protoindoeuropeo” va usato unicamente per fenomeni linguistici o testuali (e di nessun altro tipo – sicuramente non biologici) che sono ricostruibili comparativamente per l’antenato comune di tutte le lingue indoeuropee (ad esempio il prefisso protoindoeuropeo n̥– ‘non-, in-’ o la formula protoindoeuropea *hegʷʰent hogʷʰim “uccise il Serpente”), mentre l’aggettivo “indoeuropeo” va usato unicamente per fenomeni linguistici o testuali (e di nessun’altro tipo) storicamente attestati che si possono ricondurre al protoindoeuropeo (ad esempio la parola italiana madre è indoeuropea).
0 Commenti
Lascia un commento