Francesca Masini
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Quanto sarà costata questa ricerca? Quando sentiamo parlare di ricerche in campo linguistico è raro porsi questa domanda. E forse non dovremmo neanche stupirci. In fondo, un linguista non è un chimico, e neanche un biologo. Non ha bisogno di un laboratorio, né di attrezzature costose. Ma è davvero così? Negli ultimi decenni il panorama della ricerca linguistica è cambiato radicalmente, soprattutto in relazione alle metodologie, che impongono un ripensamento sul falso mito che le scienze linguistiche siano a basso costo, che possano fare a meno di finanziamenti corposi. È vero che una parte della ricerca linguistica può essere condotta anche senza finanziamenti dedicati. Ma è anche vero, ormai, che persino lavori di natura molto teorica non possono più prescindere (perché i nuovi standard del rigore metodologico difficilmente lo consentirebbero) da ciò che rende il nostro lavoro costoso: i dati.
I dati sono tutto. Sono ciò che stimola la nostra curiosità di scienziati facendoci formulare delle ipotesi. Sono ciò che ci consente di verificare le ipotesi. Sono ciò che ci porta a corroborare tesi precedentemente avanzate o a confutarle, formulando nuove ipotesi. Si potrebbe osservare che la nostra vita quotidiana è strapiena di input linguistici: dunque, che problema possono mai costituire i “dati” per la ricerca linguistica? Il problema principale è che l’avanzamento della conoscenza non può essere unicamente basato sull’osservazione diretta e sporadica dei fatti. Per rendere una tesi solida e credibile, occorre raccogliere dati in maniera rigorosa, gestirli in maniera corretta, e poi conservarli in maniera adeguata, per renderli disponibili a chi volesse controllare il nostro lavoro o magari confutarlo.
La raccolta dei dati può essere più o meno complessa, ma una cosa è certa: non è a costo zero. A titolo puramente esemplificativo, per condurre uno studio un linguista potrebbe aver bisogno di:
- creare un corpus, un’impresa che può andare dal mediamente al molto costoso (in termini non solo di risorse economiche ma anche di tempo) a seconda della quantità di dati necessari (in alcuni casi è sufficiente avvalersi di corpora già esistenti, ma non tutti sono gratuitamente disponibili);
- fare fieldwork (lavoro sul campo) presso una comunità di parlanti, che potrebbe essere dietro casa ma anche a migliaia di chilometri di distanza (chiaramente, questo implica un finanziamento ingente, specialmente quando la permanenza sul luogo si prolunga per mesi);
- condurre un’indagine, per esempio sociolinguistica, sulla percezione che i parlanti hanno di un fenomeno linguistico, magari attraverso questionari o interviste;
- condurre esperimenti in laboratorio (sì, avete letto bene: laboratorio), magari per elicitare determinati comportamenti linguistici o per misurare le reazioni dei soggetti, in ottica psicolinguistica;
- raccogliere grandi quantità di dati al fine di addestrare macchine a elaborare automaticamente il linguaggio naturale (non c’è bisogno che parliamo di ChatGPT, vero?).
Per mettere in atto la maggior parte delle tecniche che ho appena citato è indispensabile lavoro umano, da parte di persone preparate e opportunamente formate sulla raccolta, gestione e utilizzo dei dati, e supporto tecnologico, a livello sia di competenze sia di infrastrutture. Ad esempio, un corpus necessita di supporto informatico per la messa online e di costante manutenzione. Per raccogliere dati su larga scala tramite questionari occorre avvalersi di strumenti informatici che ci consentano di predisporre le domande in maniera metodologicamente opportuna e di poter poi scaricare e manipolare i dati in maniera utile alla ricerca (la licenza di un software come Qualtrics, per esempio, costa migliaia di euro l’anno). Per condurre studi di machine learning è necessaria, ancora una volta, assistenza informatica e tanta potenza di calcolo (no, non si può fare sul vostro portatile). Alcune tecniche sperimentali di elicitazione, come ad esempio quelle che prevedono l’uso di strumenti come l’Eye-Tracker, hanno un costo molto elevato, sia per l’acquisizione dell’attrezzatura che per la sua manutenzione e l’eventuale assistenza sull’elaborazione dei dati (per non parlare di tecniche neurolinguistiche basate su fMRI – Risonanza Magnetica Funzionale – e simili, per le quali è indispensabile un team interdisciplinare, e che peraltro comportano riflessioni di carattere etico e relativi costi).
Oltre al costo associato al supporto tecnologico e infrastrutturale, c’è quello – troppo spesso sottovalutato – associato al personale, che, come già menzionato, deve essere qualificato. La linguistica è un lavoro di squadra molto più di quanto si pensi. Per portare avanti una ricerca possono essere necessari molti linguisti qualificati (con formazione come minimo magistrale ma più spesso dottorale o post-dottorale), oltre che esperti in altri campi, dall’informatica alla statistica, dalla psicologia alla medicina (pensiamo alla linguistica clinica). Per non parlare poi dei parlanti o, meglio, dei partecipanti/soggetti: in questo caso, se pensate che trovare persone – del numero e tipo necessari – e convincerle a partecipare sia cosa da poco, ripensateci. Se fosse così banale, non esisterebbero piattaforme come Prolific, che offrono come servizio proprio il reclutamento di partecipanti “fidati”: è infatti possibile raggiungere in pochissimo tempo migliaia di persone, che andranno opportunamente compensate per il loro lavoro. A volte per fortuna non è necessario ricorrere a questi servizi: sui social network girano in continuazione questionari linguistici postati da studiosi o laureandi/dottorandi, e la comunità generosamente risponde (oppure c’è chi, come me, chiede aiuto ai propri studenti, che non finirò mai di ringraziare per la loro disponibilità e pazienza!). Altre volte è semplicemente indispensabile, perché servono molti partecipanti o partecipanti di una certa tipologia, che su Prolific è possibile filtrare.
Insomma, la ricerca linguistica non è a costo zero. La ricerca linguistica di base non è a costo zero. Se combiniamo questo dato con la penuria di fondi e supporto per le attività di ricerca di base nel nostro Paese, capiamo perché la caccia ai progetti competitivi è così attiva. Rispetto ad altri paesi dove le opportunità di finanziamento sono molto più numerose e diversificate, per entità e tipologia, l’Italia non offre molte possibilità. Non è un mistero per nessuno che l’Italia sia uno dei paesi che finanziano meno la ricerca scientifica (figuriamoci quella in campo umanistico). La linea di finanziamento principale e più consolidata a livello nazionale è il PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale), che esiste dagli anni Novanta. Il bando dovrebbe uscire annualmente ma di fatto ha una cadenza irregolare e incerta (anche negli esiti). Dall’ultima tornata, è stato introdotto un importo massimo per il finanziamento ministeriale (pari a €250.000). Un altro strumento promosso più recentemente è il SIR (Scientific Independence of young Researchers), destinato ai giovani ricercatori alle prese con le fasi iniziali della propria attività di ricerca indipendente, che però è rimasto bloccato all’edizione 2014. La penuria di possibilità a livello nazionale proietta i ricercatori italiani nel contesto dei bandi europei. Horizon Europe, il programma per la ricerca e l’innovazione attualmente in corso (2021-2027), si articola in vari “pilastri”, ciascuno con le proprie specificità. Un pilastro promuove la cosiddetta “eccellenza scientifica”. Di particolare interesse in questo ambito sono due linee bottom up (ovvero aperte a tutti i settori della conoscenza e basate sulla curiosità dei ricercatori, che sono qundi liberi di scegliere il tema della ricerca): le MSCA (Marie Skłodowska-Curie Actions) e l’ERC (European Research Council). Le MSCA costituiscono il programma di punta dell’Unione Europea per la formazione dottorale e post-dottorale e si basano sulla mobilità dei ricercatori. L’ERC, invece, finanzia progetti di ricerca di frontiera che comportino un alto rischio (e che quindi non siano adatti alle linee di finanziamento, anche nazionali, più “caute”). Un altro pilastro, invece, è interamente top down, ovvero muove dai bisogni della società così come analizzati e impostati dai policy maker europei. Le tematiche quindi, in questo caso, sono vincolate a quelle che sono state identificate come sfide globali (ad esempio, “Clima, energia e mobilità”, “Salute”, “Cultura, creatività e società inclusive”, ecc.). Da questo tipo di progetti, tipicamente di natura applicativa, ci si aspetta un considerevole impatto a livello sociale, che quindi costituisce un elemento stringente di valutazione.
I bandi europei – sia quelli top down che quelli bottom up – sono molto “competitivi” (il tasso di successo infatti è piuttosto basso) e comportano un notevole sforzo a livello di stesura del progetto, che non deve semplicemente essere solido scientificamente, ma strettamente rispondente ai modelli predisposti e alla struttura indicata dall’Unione Europea. Anche il linguaggio da usare nelle proposte ha una serie di caratteristiche specifiche che ne fanno quasi un linguaggio settoriale, una specie di europeese, tant’è che esistono fior fiore di corsi preparatori. L’ordine del finanziamento, del resto, è piuttosto alto: un ERC Consolidator Grant, per esempio, finanzia progetti quinquennali fino a 2 milioni di euro totali. Un progetto Horizon Europe del tipo top down può essere finanziato anche con svariati milioni di euro, a seconda della linea precisa.
Nei prossimi mesi, Linguisticamente pubblicherà una serie di articoli che descrivono ricerche in corso all’interno di progetti competitivi finanziati (sia nazionali che internazionali). Gli articoli saranno a cura dei coordinatori dei progetti, di nazionalità italiana. Cominceremo con i progetti ERC per poi espanderci oltre, e pubblicheremo qui sotto la lista di articoli che fanno parte di questo filone. Buona lettura!
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