Intervista a Lorenzo Coveri
Già Università di Genova / Accademia della Crusca
Quali sono i tratti essenziali nella storia della lingua delle canzoni italiane?
La classica periodizzazione della storia (linguistica e non) della canzone italiana segmenta il percorso in due grandi momenti: la canzone tradizionale, ancien régime, sino alle soglie degli anni Sessanta; e la canzone moderna, dagli anni Sessanta in poi. Lo spartiacque è dato dalla storica interpretazione, sul palcoscenico del Festival di Sanremo del 1958, da parte di Domenico Modugno, di Nel blu, dipinto di blu.
Non che l’avvento dei cantautori, dagli anni Sessanta in poi, si sia subitaneamente tradotto in un deciso abbandono di modi e forme del passato; ma esso è stato caratterizzato almeno da un evidente abbassamento di tono (soprattutto nel lessico, per esempio nei testi della cosiddetta ‘scuola genovese’ dei primi anni del decennio: si pensi solo al caso di Luigi Tenco, che è arrivato a poter affermare, in versi inauditi, “mi sono innamorato di te / perché non avevo niente da fare”), nella direzione di un italiano meno letterario, meno obsoleto, meno inamidato, più vicino alla lingua di tutti i giorni.
Bisogna forse aspettare i primi anni Settanta perché la rivoluzione possa dirsi compiuta, o quasi. Come si è notato, è stato Claudio Baglioni a introdurre nella sua iconica Questo piccolo grande amore (1972) topicalizzazioni, inserti dialogici, che polivalente, sintassi nominale, giovanilismi: insomma, tratti dell’oralità quotidiana; ed è stata la ‘cantantessa’ Carmen Consoli a liberare i suoi versi ‘preziosi’, di inusitata lunghezza e complessità sintattica, dalla dittatura della mascherina musicale: “Narciso parole di burro / nascondono proverbiale egoismo nelle intenzioni / Narciso sublime apparenza ricoprimi di eleganti premure e sontuosità / ispirami” (Parole di burro, 2000).
La discesa verso il parlato porta poi, come reazione alla banalizzazione, al rischio del grado zero di connotatività (come nella coppia Mogol-Battisti, peraltro all’incrocio tra ‘poesia’ e ‘prosa’ della canzone) a scelte come quella di un Franco Battiato, che gioca di fino sull’‘autonomia del significante’ o a quella, ancor più radicale, della canzone ‘neodialettale’.
Ma in mezzo ci stanno il beat, il rock, il pop e tante altre esperienze di cantanti e di gruppi, con i relativi riflessi del genere musicale sul piano verbale. Fino al rap (e alla trap), che restituendo ‘potere alla parola’ (quasi) nuda e cruda, libera la lingua dalle pastoie delle note e costituisce l’approdo (provvisorio e non privo di ambiguità) a una sorta di sperimentalismo linguistico (improvvisazione, free style, parole a raffica, rime a sorpresa, calembours, riferimenti politici e sociali) non del tutto dimentico della grande tradizione cantautorale. Almeno per ora.
Quanto emerge, dalle canzoni, il processo di ristandardizzazione dell’italiano?
La lingua delle canzoni, per decenni considerato un modello o, ancor più, un’‘agenzia’ di italianizzazione del Paese, nel corso dei decenni ne è diventata sempre più lo specchio. Sarebbe però fuorviante considerare tout court l’italiano della canzone un italiano ‘vero’ (semmai, ‘similvero’, direbbe Camilleri), senza ricordare che si tratta pur sempre, come nella lirica delle origini, di ‘parole per musica’; e che alle esigenze della musica si devono piegare i versi delle canzoni. Gli aspetti metrici dell’italiano canzonettistico sono stati da poco brillantemente indagati. Solo dal rapporto con la musica (e ciò che ci sta attorno, l’interpretazione, l’immagine) riceve il suo senso il testo della canzone, a differenza di quello poetico, che esaurisce in sé tutti i sensi.
Ciò premesso, è evidente che la lingua della canzone ha seguito, accompagnato, in qualche caso anticipato, il processo di ristandardizzazione dell’italiano, ossia l’accettazione, a volte lenta ma costante, e sia pure con contraccolpi all’indietro, di forme e tratti linguistici a lungo considerati non accettabili (o accettabili solo in determinati contesti).
Ne sono testimonianza anche i testi del Sanremo 2021, nei quali troviamo, accanto a cascami del ‘canzonettese’, fughe in avanti in cerca di immagini più o meno ‘poetiche’, zeppe, inceppamenti linguistici spesso dovuti a esigenze metriche, anche una buona dose di tratti del parlato colloquiale: inserti di discorso diretto (“Cristian cresci, stai su dritto”, Bugo), sintassi nominale (“le corse lungomare / nuotare fino a non toccare / l’ansia di non fare in tempo / i regali di Natale”, Gio Evan), dislocazioni a sinistra e a destra (“Cos’è che ti ho promesso / non so”, Annalisa; “al reparto dei superalcolici / che ci fai?”, Fulminacci; “è solo il tempo che scriverà il resto”, Random), oscillazioni nell’uso delle preposizioni (“fuori da me”, Annalisa; “dimentico di te”, Renga), pronome gli al dativo in tutti i casi (“ma lo sai come sono i serpenti / se tu gli tendi la mano”, Ghemon), forme ellittiche (“avessi finto sarebbe stato meglio”, Irama), che polivalente in gran quantità (“divento aceto che ero vino”, Extraliscio; “io non sono quell’altro / che di me”, Fasma; “…che l’amore si scopre solo in mezzo al temporale”, Gio Evan; “son qui che tremo”, Noemi), colloquialismi (schioda, Arisa; spocchia, Malika), coprolalia (stronzo, Aiello; merda, Colapesce e Dimartino; “me ne fotto”, Coma_Cose; “mondo bastardo”, Fasma; “a puttane”, Gio Evan; coglione, Lo stato sociale, Måneskin; cazzo, Måneskin), forestierismi (delivery, Annalisa; baby, Michielin e Fedez; nirvana, Gaia; chance, Ghemon; combat, rock, pop, rockstar, Lo stato sociale; per non dire della chilometrica sequenza di anglismi di Willie Peyote), lessico giovanile (fratello, Ghemon; fuori di testa, Ghemon, Måneskin; siga, fra’, Måneskin; sfiga, Lo stato sociale; coatto, Willie Peyote), e così via. Lingua di canzone: specchio o modello? “Lo scopriremo solo vivendo” (Mogol-Battisti, Con il nastro rosa, 1980).
Esiste una varietà linguistica… sanremese?
Se per ‘sanremese’ si intende un modello di canzone convenzionale, commerciale, vicino ai gusti del grande pubblico, insomma easy listening, anche grazie a un linguaggio in gran parte coincidente con quello del periodo pre-Modugno (ma persistente anche nei decenni successivi), chiuso in una bolla rispetto alla musica (e alla lingua) ‘che gira intorno’, ormai si può dire che, in maniera sempre più netta negli ultimi anni, esso sia sostanzialmente superato. Si vedano i testi dell’ultima edizione: a volervi trovare dei tratti ‘sanremesi’, bisogna rivolgersi non più che a un paio di canzoni, come quella di Arisa [Rosalba Pippa] (et pour cause: l’autore è Gigi D’Alessio), Potevi fare di più, o a quella interpretata dalla decana del Festival, Orietta Berti (Quando ti sei innamorato).
Nella prima troviamo figure scontate, come ossimori e frasi proverbiali (“nella notte il silenzio fa troppo rumore / a che serve una rosa quando è piena di spine”); lessico aulico (rancori, disparte, con un’incongrua scivolata verso il colloquiale: “se da sopra il divano più niente ti schioda”); consonanze (guardi – ricordi – bugiardi), rime baciate (uccidi: ridi: credi); ma anche un anacoluto finale (“E’ tutto quello che è stato oramai non ci credi”).
Gli autori del brano di Orietta sfoderano poi buona parte dell’armamentario della canzonetta del passato: rime baciate (niente: apparente; inganno: affanno), rime al mezzo (tanto: accanto), assonanze (perduto – cambiato), tronche in fine di verso (sveglierò), inversioni sintattiche (“mi guardi tu”; “pericoloso sei”; “solo il mio pianto mi resta senza te”), discordanze verbali (“quando mi hai detto…dicesti”): evidentemente qui è la musica che comanda. Tutto questo, e altro, può forse essere definito appunto ‘sanremese’.
Quale è il rapporto tra l’italiano e le altre lingue nelle canzoni sanremesi? La presenza di lingue ‘altre’ in una canzone sanremese può favorirne il successo?
Il regolamento del Festival richiede che i testi delle canzoni siano in italiano, con l’eccezione del dialetto napoletano, che per il suo prestigio viene evidentemente considerato come la ‘lingua della canzone’ per eccellenza. È vero che nel corso della storia della kermesse ci sono state eccezioni (con varietà linguistiche più vicine allo standard, come il romanesco, o dotate di una certa autonomia, come il sardo; peraltro nel 1997 i Pitura Freska hanno cantato in veneziano, nel 2011 Davide Van De Sfroos in lombardo laghèe), ma è comunque più facile che nei brani si trovino inserti dialettali o regionali (a scopi per lo più espressivi o realistici), oppure forestierismi (anglismi, di solito) non diversi da quelli della lingua comune.
Nel Sanremo 2017 Francesco Gabbani (Occidentali’s Karma) ha evocato il francese (démodé), l’inglese (Singin’ in the rain, sex appeal, web), il greco eracliteo (panta rei), il sanscrito (karma, mantra, nirvana, nàmaste). E nel 2019 il ‘nuovo italiano’ Mahmood (trionfatore con Soldi) ha citato, con riferimento al padre egiziano, una intera frase in arabo (“Waladi waladi habibi / ta’ aleena”: ‘figlio mio, figlio mio, amore / vieni qua’). Un caso estremo, proprio nell’edizione di quest’anno, è Mai dire mai (La locura) interpretata dal rapper torinese Willie Peyote [Guglielmo Bruno], che, a partire dal calco del titolo, infila una sequenza di anglismi in gran parte non adattati o non acclimatati (trend, rapper, band, autotune, X-Men, punk, sit-com, It-pop, boom, Tik-Tok, Spotify, live, hype, bomber, cash, trash, LOL, Exit-poll, twerkare, smart, fashion: un numero maggiore di quelli che si trovano complessivamente negli altri testi della rassegna) che hanno evidentemente una valenza ironica e polemica, e non sono forse estranei al successo del brano.
Quali sono i tratti peculiari nella lingua delle canzoni del LXXI Festival?
L’edizione 2021 della rassegna si è caratterizzata, riprendendo una tendenza già presente negli anni precedenti, per una crescente attenzione, anche per ragioni di audience e di pubblicità, al pubblico dei giovani e giovanissimi, con uno spazio inusitato concesso al mondo indie, della canzone cosiddetta ‘indipendente’.
Non sarà forse un caso che, tra le canzoni che hanno avuto, a manifestazione conclusa, più successo tra il pubblico di YouTube, delle radio e delle piattaforme (ma anche della critica), ci sono quelle riconducibili all’inesauribile filone, tipicamente italiano, della canzone d’autore, con le sue figure (più o meno riuscite) parapoetiche. Qualche esempio: “diventare adulti sarebbe un concerto di violini e di guai” (Colapesce [Lorenzo Urciullo] e Dimartino [Antonio Di Martino], Musica leggerissima); “se l’inverno è soltanto un’estate / che non ti ha conosciuto” o, più audacemente, “grattugio le tue lacrime / ci salerò la pasta” (Coma_Cose [Fausto Zanardelli e Francesca Mesiano], Fiamme negli occhi); “in un bosco di me / c’è un rumore incessante” (Madame [Francesca Calearo], Voce).
Più ridotta, rispetto alle scorse edizioni, la quota rap (e trap), che peraltro continua dominare la classifica delle hit, con la sua potenza verbale in qualche caso mescolata con tratti più autorali: “prima prosciughiamo il mare / poi versiamo lacrime / per poterlo ricolmare / le promesse erano mille mille / ma nel cuore sento spille spille” (Francesca Michielin e Fedez [Federico L. Lucia], Chiamami per nome); “e quindi parlami parlami / dai ti prego tu parlami / perché dentro i tuoi occhi già vedo come mi immagini” (Fasma [Tiberio Fazioli ], Parlami). Interessante, in quest’ultimo caso, la rima sdrucciola: il rap, più libero rispetto alle costrizioni imposte dalla mascherina musicale, se lo può permettere.
Infine, un caso a parte è quello de Il farmacista di Max Gazzè, con i suoi giocosi travestimenti: novello Dulcamara, in una rivisitazione di metri sette-ottocenteschi, da libretto d’opera, il cantautore romano ci propina una ricetta fatta di remedia amoris come il dimetisterone, il Norgestrel, la Trifluoperazina, lo stramonio, il pindololo, il Secobarbital… Con l’ibuprofene di [Antonio] Aiello (Ora) e l’Arnica di Gio Evan, anche il linguaggio medico-farmaceutico è ben rappresentato, tra le varietà linguistiche del LXXI Festival della canzone italiana.
C’è qualche specificità linguistica interessante nella canzone vincitrice?
È la prima volta che, con Zitti e buoni, sale sul gradino più alto del podio sanremese un gruppo rock, per di più di giovanissimi, i Måneskin (in danese, “al chiaro di luna”: il frontman Damiano David, la bassista Victoria De Angelis – cui si deve il nome del gruppo –, il chitarrista Thomas Raggi, il drummer Ethan Torchio).
La band sfata il luogo comune per cui la lingua italiana sarebbe più adatta alla melodia che al ritmo, e modella i versi del testo su un funky rock elettrico e aggressivo (cui contribuisce non poco la presenza scenica e il look ambiguo, genderfluid: oggi la canzone è fatta ancora di parole e note, ma soprattutto di immagine). Però, sotto sotto, affiora l’alternanza, tipica della forma canzone classica, tra strofa e ritornello, che infatti torna per tre volte: “sono fuori di testa ma diverso da loro / e tu sei fuori di testa ma diversa da loro / siamo fuori di testa ma diversi da loro” (un ritmo ternario anaforico che coniuga tre persone del presente indicativo del verbo).
Il resto è oltranza verbale: giovanilismi (fuori di testa; fra’; siga); scorciamenti (ma’, mo’, ‘sti: i ragazzi sono romani); disfemismi ormai desemantizzati nel registro colloquiale (coglioni; cazzo); naturalmente fenomeni del parlato (topicalizzazioni: “… ci credo tanto / che posso fare questo salto”). Ma qua e là emergono termini e forme più ricercate (“non scalare le rapide”; “ma se trovi il senso del tempo / risalirai dal tuo oblìo”) e persino fossili della canzone tradizionale: inversioni sintattiche per necessità metriche (“del vento senti l’ebbrezza”); consonanze (fango – camminando – tanto – allenando); rime baciate (signori: spacciatori: fuori: scalatori; Dio: oblìo), anche sdrucciole (rapide: lapide).
Insomma, i Måneskin non se ne stanno certo zitti; ma forse sono più buoni (linguisticamente parlando) di quanto non vogliano sembrare.
Per approfondire
Antonelli, Giuseppe. 2010. Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato. Bologna: il Mulino.
Coletti, Vittorio & Lorenzo Coveri. 2017. Da San Francesco al rap: l’italiano in musica. Firenze: Accademia della Crusca / Roma: GEDI.
Coveri, Lorenzo (a cura di). 1996. Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana. Saggi critici e antologia di testi dei cantautori italiani (II ediz.). Prefazione di Roberto Vecchioni. Novara: Interlinea.
Facci, Serena (con Matteo Piloni) & Paolo Soddu. 2011. Il Festival di Sanremo. Parole e suoni raccontano la nazione. Roma: Carocci.
Tomatis, Jacopo. 2019. Storia culturale della canzone italiana. Milano: Il Saggiatore.
Zuliani, Luca. 2018. L’italiano della canzone. Roma: Carocci.
0 Commenti
Lascia un commento